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Blockchain: i minatori del terzo millennio

Inchiesta sul registro digitale del futuro – SECONDA PUNTATA

  • Per fare chiarezza sulla piattaforma tecnologica più vagheggiata del momento, Panorama.it lancia il suo approfondimento. Corredata da video realizzati in collaborazione con Sda Bocconi School of Management, l’inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 3 marzo 2020.
  • Seconda puntata: Per portare alla luce i bitcoin, i cercatori di oro digitale consumano energia quanto l’intero Belgio. Tutto quello che c’è da sapere sull’infrastruttura della rete che sta cambiando il mondo.

«La produzione di bitcoin ha un consumo energetico annuale di 74,8 terawattore (Twh): è quanto abbiamo stimato essere il fabbisogno della piattaforma nel 2019». Nella nuovissima sede della SDA Bocconi, Leonardo Maria De Rossi snocciola con flemmatica nonchalance un dato stupefacente. Detto in altre parole, la più nota criptovaluta consuma energia quasi quanto l’intero Belgio: 74,8 terawattore (TWh) contro le 82,1 del Paese nord-europeo.

Il dato, peraltro, è parziale, perché non fotografa il consumo complessivo di tutte le applicazioni basate su blockchain. Pur essendo la più grande e la più dispendiosa, Bitcoin ormai è solo una delle migliaia di piattaforme che generano criptovalute. Il fabbisogno energetico d’insieme della nuova tecnologica è pertanto più alto dei 74,8 TWh indicati nello studio condotto dal docente bocconiano con Gianluca Salviotti e Nico Abbatemarco.

Per capire le ragioni di questo spropositato fabbisogno energetico, occorre mettere a fuoco il funzionamento del registro digitale del futuro. «L’infrastruttura IT della blockchain è composta sinteticamente da tre livelli» spiega Leonardo Maria De Rossi. «In basso ci sono i minatori, che generano nuovi blocchi della catena risolvendo problemi crittografici. Lo strato intermedio è composto dalla blockchain vera e propria, ossia il registro di tutte le transazioni salvate cronologicamente e condivise fra i minatori sottostanti. In alto, nello strato applicativo, ci sono gli utenti medi finali che fanno transazioni attraverso un programma detto Wallet».

Il giovane docente, che ha appena traslocato negli edifici circolari di vetro progettati dallo studio giapponese Sanaa, si concentra sul lavoro dei minatori: «Il loro compito permette di convalidare le transazioni, cercando le soluzioni crittografiche per agganciare nuovi blocchi alla catena». Ma perché si chiamano minatori? La risposta si trova sul sito Guadagno intelligente: «Il mining è simile all’estrazione dell’oro in quanto i bitcoin esistono nel design del protocollo (proprio come l’oro esiste sottoterra), ma non sono ancora stati portati alla luce (proprio come l’oro non è ancora stato scovato). Il protocollo bitcoin prevede che ad un certo punto dovranno esistere 21 milioni di bitcoin. Quello che fanno i “minatori” è portarli alla luce, poco alla volta».

Quanti sono questi minatori del Terzo millennio? «Dipende dalla tipologia delle piattaforme» risponde Valeria Portale, un’altra giovane ricercatrice che dirige l’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano. «Nell’ambito delle tecnologie blockchain ci sono migliaia di piattaforme. Le più conosciute sono Bitcoin ed Ethereum, ma ce ne sono moltissime altre. La dimensione della rete dipende dalla singola piattaforma, ma le piattaforme più grandi hanno migliaia (o anche più) di utenti che gestiscono la piattaforma e ne garantiscono la solidità».

E chi paga questi minatori, la blockchain? «No, si tratta di utenti indipendenti che, avendo visto il valore della piattaforma, hanno deciso di copartecipare a questo sistema di garanzia del registro» prosegue Portale. «Certo, ci guadagnano. C’è un sistema chiamato “di incentivo”, che però non è attribuito dalla piattaforma stessa ma viene garantito dalla rete. Per ogni transazione viene garantita una quota a chi gestisce il sistema».

Un lavoro complesso, quello dei minatori di oro digitale. Utilizzando computer specializzati e schede grafiche di ultima generazione, elaborano complicatissimi algoritmi la cui risoluzione porta alla generazione di nuove monete virtuali. Per far girare queste installazioni, che peraltro producono altissime temperature, le miniere di criptovalute hanno bisogno di quantitativi spaventosi di energia elettrica. Non a caso, spesso si trovano in località con basso costo dell’energia elettrica e basse temperature. Ecco perché molte mining pools sono situate in aree remote della Cina, «come la provincia montuosa dello Yunnan a Sud e la regione autonoma dello Xinjiang a Ovest» si legge in un articolo del sito Quartz.

«In realtà non è possibile dire con un buon livello livello di confidenza dove siano effettivamente localizzati i minatori, perché è molto semplice delocalizzarsi in Internet: basta una Vpn per apparire “virtualmente” dall’altra parte del mondo rispetto a dove si è realmente» precisa Leonardo Maria De Rossi. Detto ciò, è interessante l’analisi pubblicata il 20 dicembre 2019 dal sito Buy Bitcoin Worldwide sulla distribuzione nel mondo delle mining pool, ossia dei più grossi gruppi di minatori.Secondo tale indagine, la Cina ne ospita la stragrande maggioranza (81%), seguita da Repubblica ceca (10%), Islanda, Giappone e Georgia (2%) e Russia (1%).

E l’Italia? «Da noi è poco conveniente a causa dei costi elevati dell’energia» risponde De Rossi. «Però qui a Milano c’è un’azienda». Si chiama Criptomining e, come sostiene il claim del suo sito, è «l’unica mining farm nel centro di Milano». Fondata da un avvocato, da un broker e da un informatico, questa miniera del terzo millennio ha sede in via Santa Maria della Valle, una viuzza della Milano medioevale fra il Carrobbio e le Colonne di San Lorenzo.

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