È di nuovo al grande repertorio russo che Riccardo Chailly ha attinto per la sua dodicesima inaugurazione di stagione alla Scala, l’undicesima consecutiva. Dopo Boris Godunov di Petrovic Musorgskij nel 2022, peraltro già scelto anche da Claudio Abbado per un 7 dicembre, il direttore musicale si cimenta con uno dei massimi capolavori del teatro musicale del Novecento, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovich, proposta per la prima volta in apertura di stagione alla Scala.
Come in altre occasioni in passato, Chailly sfrutta la risonanza nazionale e internazionale della Prima – formula magica per le, ahinoi, poche pagine di cultura e spettacolo rimaste – per far conoscere un titolo d’opera meno noto al grande pubblico.
E che titolo, verrebbe da dire. Opera fondamentale per diverse ragioni, storiche, letterarie e ovviamente musicali, Lady Macbeth è innanzitutto un lavoro che affascina per la sua distanza dalle convenzioni operistiche. Scordiamoci il melodramma, con i suoi “effetti senza cause” e le sue strazianti e straziate eroine tisiche in attesa dell’amante per un ultimo duetto prima di spirare: emozioni al quadrato, anzi al cubo, che nessun essere umano sano di mente potrebbe mai veramente provare. Questo per semplificare, ovviamente: l’opera è anche tanto altro, dalle schermaglie amorose settecentesche, ai sublimi virtuosismi del barocco, alle conturbanti e freudiane collisioni fin de siècle… il catalogo, “madamina”, è sterminato.
Ma ciò che rende Lady Macbeth unica è l’inaudita, spietata violenza che mette in scena, la brutalità di una protagonista fuori da qualsiasi canone e, forse anche per questo, vera più del vero.
Katerina L’vovna, moglie infelice di un mediocre e represso mercante, è una giovane donna che – senza troppi giri di parole – avrebbe bisogno di essere amata, anche e soprattutto fisicamente. «Dio mio che noia!» esclama nel suo monologo iniziale come farebbe Emma Bovary. E non si può darle torto: il distretto di Mcensk, nella Russia provinciale degli anni Sessanta dell’Ottocento, non doveva essere esattamente uno spasso. Per di più Katerina vive in una sorta di prigione, il cui carceriere è il tremendo suocero Boris Timofeevic Izmailov, padre-padrone che, per non farci mancare nulla, la insidia pure.
Non sorprende, dunque, che Katerina cerchi vie di fuga, soprattutto dopo essersi innamorata del bel garzone Sergej, con cui intreccia una relazione destinata a finire in tragedia. Nell’ordine: avvelena il suocero con una zuppa di funghi, poi, con la complicità dell’amante, uccide il marito per poter vivere liberamente il suo sogno d’amore nella stessa casa in cui era prigioniera. Inevitabilmente i due vengono scoperti e spediti ai lavori forzati sulle rive del Volga, dove Sergej non ci mette molto a trovarsi un’altra donna. Alla fine, umiliata e offesa, Katerina si getta nel fiume trascinando con sé la rivale.
Se già questa catena di delitti farebbe impallidire le serie di Ryan Murphy, la novella di Nikolaj Leskov da cui Šostakovich, insieme ad Aleksandr Prejs, trasse il libretto era persino più cruenta: nella loro furia omicida, i due amanti arrivavano a eliminare anche un bambino. Vale la pena ricordare il proverbio russo scelto come epigrafe del racconto: «La canzoncina ti fa arrossire solo la prima volta che la canti», modo tutt’altro che ellittico per dire che il male provoca scrupoli solo la prima volta, poi sempre meno, finché diventa abitudine. È ciò che accade a Katerina. Lo “sconto” di una vittima che le concede Šostakovich tradisce, se non simpatia, almeno una profonda comprensione per lei: «Un essere intelligente e appassionato che soffoca nel grigiore della vita e dell’ambiente in cui è costretta».
Per un confronto con la Katerina originale, vale la pena rivedere il bellissimo film di William Oldroyd con una glaciale Florence Pugh agli esordi.
Non stupisce che, al suo debutto nel 1934, prima a Leningrado, e subito dopo a Mosca, Lady Macbeth abbia suscitato enorme curiosità. Il successo fu immediato, in Russia come all’estero, Stati Uniti compresi, finché due anni dopo Stalin non assistette a una rappresentazione, lasciando la sala prima della fine. Pochi giorni dopo, sulla Pravda, comparve il famigerato articolo Caos anziché musica che, più che una stroncatura (peraltro anonima), suonò come una minaccia diretta al compositore. Erano gli anni delle direttive di Ždanov, da poco responsabile della cultura del Partito comunista, e le accuse mosse erano due: il soggetto non rispettava le dovute distinzioni di classe e, soprattutto, il linguaggio musicale “modernista”, giudicato intricato ed elitario, non teneva conto delle esigenze del popolo.
L’accusa di “formalismo” appare oggi risibile, smentita dal successo stesso dell’opera che, se davvero fosse stata così ostica, non avrebbe potuto conoscere una simile diffusione. In realtà a infastidire Stalin fu il suo stesso bigottismo: non tollerò una rappresentazione del sesso tanto esplicita, brutale e lontana da qualsiasi idealizzazione operistica.
L’attacco politico segnò la fine della carriera operistica di Šostakovich, dopo appena due titoli – il primo era Il naso, tratto dal celebre racconto di Nikolaj Gogol’. Il danno fu incalcolabile: il compositore aveva solo 28 anni e con Lady Macbeth immaginava di inaugurare un trittico dedicato alla donna russa. Senza l’intervento censorio di Stalin, oggi avremmo forse una sorta di Ring sovietico (Der Ring des Nibelungen, L’anello del Nibelungo, ndr)
Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, da questa nuova produzione? In verità, è difficile che Lady Macbeth venga male: la sua forza dirompente, la trama avvincente, la varietà stilistica che spazia dal poetico al grottesco più estremo, la rendono una di quelle opere che “vanno da sole”. Ma è altrettanto vero che il rischio di spingere troppo è sempre in agguato: basta poco per scivolare nel volgare o nel kitsch, e il sesso a teatro va maneggiato con arte, altrimenti il ridicolo è dietro l’angolo.
Il regista russo Vasily Barkhatov, poco più che quarantenne e al suo debutto alla Scala, sembra il nome giusto per mantenere l’equilibrio tra i molti eccessi dell’opera, e per riconoscere nel gesto di ribellione di Katerina tanto la sua natura delittuosa quanto la sua potenza liberatoria.
In fondo, il “caos” di cui parlava la censura stalinista non è un termine del tutto arbitrario. Ma è proprio la forza caotica di questa partitura, e che Chailly e Barkhatov sono chiamati a domare, a renderla una delle più potenti di sempre.
