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In laboratorio la ruota non girerà più: la rivoluzione che può cambiare la sperimentazione animale

In laboratorio la ruota non girerà più: la rivoluzione che può cambiare la sperimentazione animale

Smettere di sacrificare topi e altre cavie nella sperimentazione. Un futuro possibile, grazie alle nuove tecnologie: chip d’organo, colture cellulari 3D, modelli computazionali, organoidi, Intelligenza artificiale. Negli Usa si è avviato un progetto pilota. In Italia gli scienziati sono avanti (ma esistono nodi normativi). Intanto, però, i test sugli animali restano fondamentali

Non ha un nome, solo un numero inciso su un orecchino metallico. È un topolino da laboratorio, uno dei 365.130 animali utilizzati nel 2023 in Italia per fini scientifici, secondo i dati ufficiali del ministero della Salute. Vive in gabbia, sotto luce artificiale, nutrito a orari fissi. Poi viene sedato, esposto a una molecola nuova, e spesso soppresso per analizzare fegato, reni, cervello. Sembra la storia di Algernon, il topo geniale del romanzo di Daniel Keyes (Fiori per Algernon). Ma non è finzione: è la realtà quotidiana della medicina preclinica, da oltre settant’anni. Una realtà che, in molti casi, si rivela anche scientificamente inefficace. Lo conferma il report Ecvam 2025 del Joint research center (Jrc) della Commissione europea: «Circa il 90 per cento dei farmaci sperimentali che superano i test su animali falliscono durante gli studi clinici sull’uomo, principalmente per inefficacia o tossicità non prevista».

Negli Stati Uniti, la Food and drug administration (Fda), agenzia regolatoria americana, ha lanciato un programma pilota finanziato da Trump: alcune aziende farmaceutiche potranno avviare studi clinici basandosi unicamente su metodi alternativi alla sperimentazione animale. Sono i cosiddetti NAMs (New approach methodologies): chip d’organo, colture cellulari in 3D, organoidi, modelli computazionali e intelligenza artificiale. In sostanza, si tratta di tecnologie sviluppate durante la fase preclinica per simulare il corpo umano in vitro o al computer, replicando funzioni fisiologiche e risposte cellulari specifiche senza ricorrere a esseri viventi.

Un esempio concreto? Il chip epatico sviluppato da Emulate Inc., una biotech di Boston: un microdispositivo contenente cellule umane di fegato, capaci di riprodurre con precisione le funzioni epatiche. Nei test, ha raggiunto l’87 per cento di accuratezza nell’individuare molecole tossiche e il 100 per cento per quelle sicure. Livelli impensabili per i modelli animali, notoriamente incostanti.

Però è meglio non farsi abbagliare dal marketing istituzionale. «Nel 2024, negli Stati Uniti sono stati ufficialmente utilizzati circa 775 mila animali per fini scientifici» ha dichiarato Giuliano Grignaschi, segretario generale di “Research4Life” e responsabile del benessere animale all’Università statale di Milano, in occasione della Biotech Week 2025. «Ma è un dato parziale, perché negli Usa, a differenza dell’Europa, topi, ratti e pesci zebra non vengono censiti, pur rappresentando l’80-90 per cento degli animali da laboratorio. Il numero reale si aggira tra gli 8 e i 10 milioni di esemplari all’anno. Quindi no, gli Usa non hanno abbandonato la sperimentazione animale».

Anche l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) mantiene una posizione prudente. «Attenzione al battage pubblicitario americano: questi approcci metodologici devono essere validati e garantire la sicurezza per i pazienti», avverte Pierluigi Russo, direttore tecnico scientifico. «Alcune di queste tecnologie sono come le batterie delle macchine elettriche: prodotti che le multinazionali sono pronte a vendere».

Bruxelles, almeno sulla carta, si è mossa. Il Jrc ha pubblicato una roadmap europea per sostituire gradualmente l’uso di animali nei test regolatori senza scadenze vincolanti per gli Stati membri.

«La Commissione europea ha dichiarato il suo impegno attraverso un’azione politica nel quadro dello Spazio europeo della ricerca (Era)», spiega un esperto del Jrc. «E Horizon Europe destinerà 50 milioni di euro ai NAMs nel programma 2026-27».

Pioniere in Europa è stato il governo olandese, che già nel 2016 ha lanciato un piano nazionale con investimenti miliardari per diventare leader nei metodi alternativi. Ma, a quasi dieci anni di distanza, il traguardo è ancora lontano.

A detta del Jrc, l’Italia si trova in una posizione solida per sostenere la transizione verso approcci non animali. A Brescia ha sede l’Izsler, Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, ente pubblico vigilato dal Ministero della Salute e Centro di referenza nazionale per i Metodi alternativi. Citato nel report Ecvam tra gli attori più attivi, l’Izsler sviluppa protocolli, monitora i metodi validati e forma gli operatori scientifici.

«C’è una grande differenza tra ricerca di base e ambito normativo», chiarisce a Silvia Dotti, dirigente medico veterinario di Izsler e responsabile del Centro di referenza. «Nel campo della ricerca di base e preclinica, i NAMs possono essere già utilizzati, soprattutto nella tossicologia e nella valutazione del rischio chimico».

Presso lo Izsler, infatti, si sviluppano metodiche basate su colture cellulari tridimensionali e stampanti 3D capaci di ricostruire in vitro porzioni di tessuto umano. Su questi mini-organi si testano molecole, si osservano reazioni cellulari e si mappano persino alterazioni molecolari. Senza sacrificare un solo animale. Ma come avverte Dotti, «nel contesto regolatorio tutto si complica: qui i metodi devono essere validati a livello europeo, e il percorso – tra burocrazia, studi, certificazioni – è lungo e molto costoso».

Anche il settore privato è in fermento. In Evotec, multinazionale attiva nella ricerca e sviluppo di nuovi farmaci, si sperimentano metodi alternativi, tra cui ad esempio colture 3D e cellule umane di derivazione staminale per valutare la tossicità epatica, cardiaca e neuronale dei potenziali farmaci. «Investiamo circa 3 milioni di euro l’anno, ma servono molte evidenze scientifiche per dimostrare che i NAMs possano sostituire completamente la sperimentazione animale e far sì che le autorità regolatorie li accettino. Ci vorrà ancora molto tempo e uno sforzo coordinato della comunità scientifica», dichiara a Panorama Maria Pilla, amministratore delegato di Aptuit Verona, una delle sedi più grandi del gruppo.

In teoria, però, la legge è già dalla parte degli animali. Il decreto legislativo 26 del 2014, che recepisce la direttiva europea 2010/63, impone il rispetto del principio delle 3R, un acronimo che sta per Replacement, Reduction, Refinement: ovvero, sostituire l’animale se possibile, ridurne l’uso quando necessario e perfezionare le tecniche per ridurre sofferenza e stress. In sostanza, tutto ciò si traduce in un obbligo per i ricercatori: prima di iniziare una sperimentazione su animali, devono dimostrare di non avere alternative migliori. E ogni progetto deve passare il vaglio di un comitato etico autorizzato dal Ministero della Salute. Una normativa pensata per «proteggere animali senzienti, che provano dolore e paura esattamente come noi», ricorda Grignaschi.

Peccato che l’Italia inciampi proprio sull’applicazione. «Abbiamo introdotto divieti assurdi: neghiamo l’allevamento di alcuni animali da laboratorio, ma ne permettiamo l’uso. Così dobbiamo importare le cavie dall’estero, stressandole nel trasporto. E l’Europa ci ha aperto una procedura d’infrazione tuttora in corso», ha spiegato Grignaschi. 

Ma non è solo un problema di coerenza normativa. È politico e culturale. «Cina e India stanno investendo molto sulla ricerca d’avanguardia», ha avvertito ancora Grignaschi. «E un numero crescente di ricercatori sta migrando verso quei Paesi». La transizione è possibile, ma servono risorse strutturali e continuità. «I centri pubblici come il nostro ricevono dal Ministero della Sanità fondi dedicati allo sviluppo di queste metodiche, come previsto dal DL 26/2014, e l’investimento deve essere costante per garantire un percorso scientificamente valido nel tempo», spiega Dotti. 

Un timido segnale è arrivato con la manovra economica 2026: l’articolo 65 prevede un incremento di 10 milioni annui per gli istituti zooprofilattici sperimentali a decorrere dal prossimo anno.

Una boccata d’ossigeno, certo. Ma destinata – recita il testo – a coprire «l’aumento del costo dei servizi nonché dalle ricorrenti emergenze sanitarie», non a spingere la rivoluzione dei NAMs. La cautela è, in fondo, giustificata: questo genere di chip non replica l’intero organismo, né prevede tutte le interazioni tra apparati complessi. E così, almeno per ora, Algernon resta nella sua gabbietta. A fare il suo dovere.

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