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Blockchain: aperta o chiusa?

Inchiesta sul registro digitale del futuro – TERZA PUNTATA

  • Per fare chiarezza sulla piattaforma tecnologica più vagheggiata del momento, Panorama.it lancia il suo approfondimento. Corredata da video realizzati in collaborazione con Sda Bocconi School of Management, l’inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 3 marzo 2020.
  • Terza puntata: Le applicazioni della nuova tecnologia stanno proliferando. Ma per stabilirne l’effettiva utilità, occorre capire le caratteristiche intrinseche della piattaforma. Che può essere «permissionless» o «permissioned».

Il video integrale di Leonardo Maria De Rossi



Dal crowdfunding ai diplomi di maturità, dalla web tv alla tracciabilità ambientale: le applicazioni della blockchain stanno proliferando a velocità superluminale. Ma per stabilire l’effettiva utilità (nonché la reale necessità) di queste iniziative occorre capire le caratteristiche intrinseche delle piattaforme sulle quali sono basate.

«Piattaforme che, sostanzialmente, si dividono in due macrocategorie» spiega Leonardo Maria De Rossi, docente della Sda Bocconi specializzato nello studio del registro digitale del futuro, «la blockchain permissionless, cioè un sistema aperto, e la blockchain permissioned, cioè un sistema chiuso».

In sostanza, per decidere come usare gli strumenti offerti dalla grande famiglia dei registri distribuiti è fondamentale capire la differenza fra blockchain aperta e blockchain chiusa. Una differenza sostanziale, visto che la blockchain così come è stata ideata da Bitcoin è basata sulla trasparenza. Peccato però che le due tipologie di piattaforme non garantiscano lo stesso livello di apertura, chiarezza e visibilità.

«Le cosidette piattaforme permissionless, cioè senza permesso, non hanno bisogno di chiedere il permesso a nessuno» spiega Valeria Portale, direttrice dell’Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano. «Chiunque può entrare all’interno di questa piattaforma: non c’è qualcuno che decide se io posso entrare o se non posso entrare. E chiunque può co-partecipare a questa logica di validazione delle transazioni».

E le piattaforme permissioned, cioè con permesso? «In quel caso, c’è un attore che decide chi può far parte del sottogruppo di validatori» spiega Portale. E chi è quest’attore? Di solito si tratta di aziende, vero? «Ci sono diverse tipologie di attori: possono essere aziende singole, consorzi di aziende, istituzioni…» Puntualizza De Rossi: «La differenza è che nella blockchain privata c’è qualcuno, che può essere un individuo, un’azienda o un gruppo di aziende, che autorizza l’accesso all’interno di questa piattaforma. Per cui non è come nel caso di Bitcoin, dove chiunque con una connessione a Internet può accedere. Si tratta invece di un contesto chiuso, in cui c’è qualcuno che dice: “Sì, tu hai il diritto di entrare”».

Un’altra differenza fondamentale è rappresentata dai validatori, vale a dire i cosiddetti minatori digitali, che risolvendo problemi crittografici validano le nuove transazioni. «Nel caso della blockchain aperta, si tratta di utenti indipendenti, che attraverso un sistema di incentivo garantito dalla rete guadagnano per ogni transazione portata a termine» prosegue Portale. «Nella blockchain chiusa, invece, non esiste un incentivo per i validatori». E perché lo fanno? Pro bono? «Ci possono essere una serie di motivazioni. Nella piattaforma Ebsi che sta mettendo in piedi l’Ue basandosi su una blockchain chiusa, per esempio, i validatori saranno definiti a priori e saranno autorizzati dall’Ue. E la garanzia che lavorino bene potrebbe essere data dai governi dei vari Paesi. Potenzialmente esistono meccanismi di differenziazione dei vari incentivi».

Già, la European Blockchain Services Infrastructure… Ma perché l’Ue non ha scelto una rete aperta? «Io sono convinta che in futuro le piattaforme aperte saranno quelle sicuramente con maggior possibilità di sviluppo» risponde la docente del Politecnico. «Detto ciò, in una fase come quella attuale le piattaforme chiuse permettono di gestire il registro con maggior garanzia del processo di per sé». La docente del Politecnico propone una una similitudine: «Anche quand’è partito Internet piaceva moltissimo a tutti. Le aziende però avevano sviluppato le cosiddette Intranet interne perché avevano la preoccupazione di mettere tutti i propri dati su una piattaforma che non era controllabile e governabile».

Valeria Portale conclude salomonica: «In una fase iniziale di sviluppo di questa tecnologia probabilmente abbiamo bisogno anche delle piattaforme chiuse per capire come sviluppare le soluzioni. E poi anche per capire che ci saranno alcune cose che potranno andare bene sulle piattaforme chiuse e altre che dovranno andare sulle piattaforme aperte».

Su una diversa lunghezza d’onda il collega della Bocconi, Leonardo Maria De Rossi: «Effettivamente, negli ultimi anni sono nate le piattaforme private che hanno il nome blockchain ma sono ben poco blockchain: diciamo che sono delle inspired-blockchain. Con queste reti chiuse viene totalmente meno il senso della blockchain: hanno caratteristiche tecniche simili, ma dal punto di vista puramente pragmatico sono del tutto diverse. Nemmeno paragonabili a quelle delle piattaforme aperte».

Ma perché sono nate le blockchain chiuse? «La risposta probabilmente è duplice» rsiponde il docente bocconiano. Da un lato, molto marketing e molta spinta da parte di technology provider». Cioè business? «Certo. Business, business… Dall’altro lato, però, è vero che c’è una necessità di controllo. Ed è comprensibile che un’azienda abbia necessità di controllare le proprie transazioni o le proprie applicazioni. Ma qual è il problema? Anziché cercare di prendere la blockchain per quello che è, ossia una tecnologia per far funzionare i Bitcoin, si è cercato di modificare questa tecnologia per renderla adatta alle caratteristiche aziendali».

Ma non c’è altro sul mercato? «Certo. Se le aziende hanno bisogno di architetture chiuse, da controllare» continua il ragionamento De Rossi, «possono fare riferimento ad altri tipi di tecnologie: Cloud, Erp, Crm… In ogni caso, database chiusi. Esistono e funzionano anche molto bene». E invece tante aziende e istituzioni si stanno buttando sulla blockchain chiusa, che sembra quasi una contraddizione in termini.

Ma perché? Perché questa piattaforma va di moda ed è bello usare la parola blockchain? De Rossi sorride: «Mah.. La blockchain di sicuro va di moda: nella cosiddetta curva di Hype, di Gartner, è in uno dei punti massimi». Con una citazione elegante, che fa riferimento al «ciclo dell’esagerazione» elaborato da una società di consulenza statunitense, il docente della Bocconi lancia un messaggio preciso: attenzione a non cadere preda delle mode. E di chi sulle mode ci marcia.


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