Svedese di adozione, Fatin al-Mandlawi è andata a combattere in Siria con il Califfato islamico, ne ha condiviso gli eccidi ed è stata a capo di un’importante brigata. Nel 2017 ha fatto ritorno a Göteborg, dove oggi conduce un’esistenza tranquilla. Perché nel civilissimo Nord Europa il suo passato sembra non contare.
- La foreign fighter svedese
- La storia vera a cui è ispirata la serie tv Califfato
Si chiama Fatin al-Mandlawi. È stata una jihadista che ha combattuto per lo Stato islamico in Siria, militando nella famigerata Brigata al-Khansa, sorta di buoncostume al femminile dell’Isis. Come le sue compagne, ha svolto compiti di polizia, reclutamento e gestione delle foreign fighter per il Califfato. È arrivata al comando della formazione. Ha visto compiere atrocità e sevizie di ogni genere. Diceva anche di voler farsi saltare in aria…
Oggi è invece una tranquilla casalinga nella periferia di Göteborg, dove vive vendendo «pacchetti» online di auto-indottrinamento alla religione di Maometto. Ha 33 anni, sfrutta Internet e l’ingenuità della gente, così come i servizi sociali della Svezia. Dove ha fatto ritorno nel 2017, senza passare da alcun tribunale. Non ha ricevuto neppure una multa per i suoi trascorsi da terrorista, ma l’assegno dell’assistenza sociale, quello sì.
Com’è stato possibile? A dar retta ad Hanif Bali, membro del Partito moderato, formazione politica di centrodestra oggi all’opposizione, «la Svezia oggi è diventata ciò che l’Argentina era per i nazisti. Solo che, dopo la Seconda guerra mondiale, laggiù hanno approvato una legislazione retroattiva e fatto condannare i nazisti. Noi no».
Fatin al-Mandlawi, «terrorista di ritorno» ma in possesso di un passaporto, ha potuto rientrare in Europa senza fare un giorno di prigione: su di lei, infatti, i magistrati svedesi hanno dovuto ammettere la «mancanza dell’onere della prova». Eppure ci sono molte testimonianze sui suoi misfatti e svariate foto. Ciò nonostante, i giudici non hanno ritenuto opportuno procedere oltre. Così, adesso Fatin al-Mandlawi vive con i suoi due figli nel sobborgo di Angered, con la nuova identità di Fatosh Ibrahim.
Nata in Iraq, è la quinta figlia della famiglia al-Mandlawi, che si è trasferita in blocco a Eskilstuna e poi a Göteborg allo scoppiare della prima guerra del Golfo, nel 1990. In Svezia la giovane Fatin conduce una vita normale e va in discoteca. Ma nell’autunno 2012 suo fratello maggiore, Hassan, parte per la Siria e si unisce al fronte al-Nusra, la più potente formazione jihadista d’opposizione nel Paese.
Agli inizi del 2013 Fatin è una delle prime donne svedesi a partire per la Siria; raggiunto il fratello a Raqqa, la capitale dell’Isis, le viene assegnato un ruolo nella Brigata al-Khansa, la compagine militare che prende il nome da una poetessa araba del 6-7° secolo, autrice di elegie in vita e morte dei suoi due fratelli.
Hassan riesce a tornare in Svezia nel 2015. Ma, a differenza della sorella, viene condannato all’ergastolo per crimini terroristici, dopo che sarà provato il suo coinvolgimento nella decapitazione di due operai che lavoravano per una compagnia petrolifera siriana.
A Raqqa, intanto, Fatin ha cambiato nome: Umm Fidah. Sposa un foreign fighter, un cittadino inglese che le dà una figlia, prima di morire in battaglia. La situazione in Siria si complica giorno dopo giorno, lei però non ha alcuna intenzione di tornare in Svezia per offrire un futuro migliore alla bimba nata sotto le bombe. Al contrario, sale di grado nella Brigata e, con opera di proselitismo, convince molte giovani europee a recarsi nel Califfato.
Secondo il ricercatore Magnus Ranstorp, diventa «una figura chiave nel lavoro di reclutamento dell’Isis. È molto aggressiva e brutale. Brutale per convinzioni, ma non solo. Ci sono anche foto di lei mentre usa le le armi». La neo-comandante della Brigata al-Khansa ha commentato il suo ruolo con questo post su Facebook: «Non possiamo che fondare una brigata per sole sorelle e combattere i maiali e pregare per il martirio».
Sullo stesso social della donna si trovano molti commenti agghiaccianti, e una foto che la ritrae al centro di una piazza, mentre a terra ci sono cadaveri decapitati. Lei è in posa (sia pure velata) accanto a una recinzione, su cui è infilzata una testa mozzata. Il suo commento: «Che cosa? Stai parlando con me? Ops non hai testa! Questo è ciò che facciamo con i soldati di Bashar», in riferimento a Bashar al-Assad, il presidente siriano.
Anne Speckhard, che insegna psichiatria alla Georgetown University e dirige l’International Center for the Study of Violent Extremism (Icsve), chiarisce a Panorama il ruolo della terrorista: «Al-Khansa ha avuto il compito di garantire che le donne del Califfato rispettassero la rigida legge della Sharia. L’attuale comandante del gruppo, tutto femminile, è conosciuta come Aum Mariam al-Faransi. E il battaglione al-Khansa è composto in maggioranza da giovani provenienti dall’Europa, che parlano quasi tutte francese. Ci sono anche donne che arrivano dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Le tunisine sono le più numerose, ma c’è anche un piccolo nucleo di siriane e irachene». E saranno proprio queste ultime a scalare i vertici della Brigata.
Fatin al-Mandlawi comanda tra le 60 e le 70 donne: ognuna di loro riceve un addestramento militare, rudimenti di intelligence e viene equipaggiata con fucile Kalashnikov e granate. Una recluta apprende inoltre come assemblare giubbotti esplosivi e realizzare silenziatori, viene istruita in tecniche per omicidi all’arma bianca. Il campo di addestramento del battaglione sarà rivelato dopo la riconquista di Raqqa: si tratta di un istituto scolastico di fronte a una famosa panetteria, al-Fardus Bakery (entrambi rasi al suolo nel 2017).
Prima dell’implosione del Califfato, Fatin fa in tempo a sposare un altro foreign fighter, un australiano oggi in carcere a Canberra, da cui ha un secondo figlio. È a questo punto che decide di tornare in Svezia. È l’ottobre 2017, Raqqa è appena caduta, e i jihadisti fuggono verso il confine siro-iracheno. Ma non lei.
Del resto, ha un passaporto svedese e sa bene che il sistema di accoglienza del Paese nordico adotta una politica tollerante con i suoi cittadini: a fronte di una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, dal 2013 il governo di Stoccolma ha accolto più di 800.000 migranti e concesso il ritorno di ben 150 terroristi dell’Isis, famiglie comprese.
Molti altri sono ancora nel campo di al-Hol, nella Siria nord-orientale, dove già alle prime avvisaglie della guerra civile erano sfollate circa 64.000 persone. Dal 2012, si stima che 300 svedesi si siano recati in Siria e Iraq per unirsi a gruppi terroristici, il 76% uomini e il 24% donne. A settembre 2016, erano tornati in Svezia 106 combattenti stranieri, altri 112 erano ancora in Siria o Iraq. Altri 49 sarebbero morti nel conflitto.
Ha invece fatto ritorno Osama Krayem, svedese di origine siriana coinvolto negli attentati di Parigi del 2015 e in quelli di Bruxelles – dove è stato arrestato – del 2016: come Fatin, era tornato in Europa attraverso la rotta dei migranti dalla Siria alla Turchia passando per Leros, in Grecia, dove si era presentato il 20 settembre 2015 con un passaporto falso a nome Naïm Al Hamed. Lui è rinchiuso in un carcere a Parigi, da dove non uscirà mai più. Ma quanti altri jihadisti addestrati a uccidere sono potuti rientrare impunemente in Europa?
Anche la Svezia ha pagato il proprio tributo di sangue, subendo un attentato il 7 aprile 2017: un camion è piombato sulla folla e ha ucciso cinque persone. Eppure, molti ex terroristi e foreign fighter – Fatin al-Mandlawi è il caso esemplare – oggi si mescolano con la popolazione svedese, come se niente del loro passato li riguardasse. Ma Stoccolma, come d’altra parte molte istituzioni europee, sembrano rimuovere il problema.
La storia vera a cui è ispirata la serie tv Califfato

La storia di Fatin al-Mandlawi, lady Isis, ricorda quella narrata in Califfato, la serie di Netflix che racconta il percorso di due sorelle svedesi musulmane che vengono ammaliate dall’ideologia dell’Isis. Sotto gli occhi attoniti del padre, le due giovani studentesse iniziano a indossare l’hijab, a guardare video dell’Isis e a studiare la Sharia. Un processo di radicalizzazione che le porta alla decisione finale di trasferirsi in Siria, nel Califfato dello Stato Islamico.
Diretta da Goran Kapetanović, la serie è prodotta in Svezia e girata in otto puntate tra Stoccolma e la Giordania. Disponibile sulla piattaforma di streaming dal 18 marzo 2020, questo thriller crime racconta con un crescendo di tensione la storia di un attacco dell’Isis al Paese scandinavo. Ma il cuore della narrazione affronta un tema molto attuale, quello del reclutamento (e del relativo indottrinamento ideologico) di sprovveduti adolescenti europei islamici di seconda generazione.
La serie si concentra in particolare sulle figure femminili, che rappresentano una fetta consistente dell’esercito dei foreign fighters. Secondo lo Institute for Strategic Dialogue, un think tank londinese che si occupa di estremismo, sarebbero circa 550 le ragazze e le donne che hanno lasciato i Paesi occidentali per unirsi allo Stato islamico.
È descritta molto bene la trasformazione delle sorelle protagoniste, da teenager spensierate in fanatiche sostenitrici dei tagliagole islamici. Sulika e Lisha maturano un crescente disagio verso la secolarizzata società svedese che si trasforma in vera e propria avversione fino all’esplicito ripudio, che culmina con la partenza per la terra promessa del Califfato.
Una storia agghiacciante che, a sua volta, si basa su una storia vera. Il riferimento è a un caso avvenuto nel Regno Unito, quello del cosiddetto trio Bethnal Green. Le protagoniste sono tre adolescenti britanniche, Amira Abase, Shamina Begum e Kadiza Sultana, che nel febbraio 2015 vennero agganciate da reclutatori della Jihad alla Bethnal Green Academy, una scuola superiore londinese.
Il 17 febbraio 2015, le tre ragazze si imbarcarono su un volo della Turkish Airlines dall’aeroporto di Gatwick diretto a Istanbul, per poi raggiungere via terra lo Stato islamico. Per pagare il biglietto, avevano rubato (e venduto) i gioielli di famiglia.
