Raccolte in volume le centinaia di interviste realizzate al più grande poeta italiano del Novecento. Il risultato è una straordinaria ricostruzione della sua vita, fatta di aneddoti e censure, di donne e politica, di paradossi e ironia.
«Io non credo che uno scrittore possa essere psicanalizzato post mortem in base ai documenti, non solo alle opere, da lui lasciati» scriveva Eugenio Montale a metà anni Sessanta, parlando delle lettere di Italo Svevo. In realtà parlava anche di sé. Lui, da una parte personaggio pubblico, maggior poeta italiano del Novecento, redattore-scrittore al Corriere della sera, persino senatore e, poi, Nobel per la letteratura nel 1975. Dall’altra, riservato, appartato, «geloso» di tanti aspetti della propria vita. Si pensi al fondamentale incontro negli anni Trenta con la studiosa americana di Dante, Irma Brandeis, la donna che a Montale ha ispirato versi di assoluta bellezza (in particolare nelle Occasioni e nella Bufera), e della quale si è potuto misurare l’importanza soltanto molto dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1981.
Ecco che pubblicare una raccolta di circa 270 interviste, fatte a Montale dal 1931 alla sua scomparsa, significa non seguire volutamente i suoi dettami sulla separazione tra opera e vita. Eppure è un’operazione affascinante per ricostruirne il percorso esistenziale con le sue stesse parole, un’«autobiografia involontaria» preziosa anche per illuminare ciò che ha scritto. Il lavoro imponente – oltre 1.200 pagine – che Francesca Castellano ha appena mandato in libreria (Interviste a Eugenio Montale, Società editrice fiorentina) risulta quindi un pozzo profondissimo di aneddoti, personaggi, occasioni e allusioni, la storia di un uomo e di un Paese.
«Credo che le conversazioni giornalistiche con Montale raccontino una figura umana straordinaria e un intellettuale di raro valore non solo nel Novecento» dice la studiosa, reduce da un ordinamento del materiale per cui ha impiegato 10 anni. «Da giornalista, conosce i meccanismi delle interviste. Sa quanto una risposta possa in realtà nascondere e un silenzio essere eloquente».
«Nel ricordo tutto è bello anche le cose brutte» ha sintetizzato Montale. Quando – è il 1963 – parla di infanzia e giovinezza in Liguria all’origine degli Ossi di seppia, la sua raccolta più famosa, è capace di comporre immagini ispirate: «Io amo molto il mare. Nella mia poesia, dagli Ossi in poi, è un continuo mareggiare».
E si pensi anche al «male di vivere» di un suo verso, ormai proverbiale. Ricorda: «Rimpiango di non averla goduta di più la vita. Ero anche povero, di aspetto non apollineo». Su Genova, dov’è nato, concede nel 1974: «La città era meno brutta di quanto mi dicono oggi… È diventata lunghissima. Io la paragono a un serpente che abbia divorato un coniglio». Oltre che creativo in memorie e impressioni, il poeta se vuole è di un’ironia inarrivabile. Con l’amico filologo Gianfranco Contini, che lo interroga sul distacco irrecuperabile dal luogo di nascita, taglia corto: «Non si torna nella città dove si riconoscono i paracarri su cui si fece pipì da bambini».
Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Camilla Cederna, Manlio Cancogni: i grandi giornalisti che raccolgono le sue interviste contribuiscono a ricostruire parti di biografia che sembrano pagine di romanzo. Commenta ancora Castellano: «Cruciali sono i 20 anni passati da Montale a Firenze, dal 1927 al 1948. Lui stesso varie volte conferma che “è stato il periodo più bello della mia vita”». Qui frequenta scrittori e artisti (Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Aldo Palazzeschi, Ottone Rosai), diventa direttore di un’istituzione storica, il Gabinetto Vieusseux. E attraverso di esso arriva al confronto con il fascismo. Nonostante Montale avesse firmato il Manifesto degli intellettuali contro il regime, viene assunto. Dice: «Vi entrai per una strana ragione. Il presidente era Paolo Emilio Pavolini e portò al podestà di Firenze, il conte Giuseppe della Gherardesca, una terna di possibili direttori. “Sono iscritti al Partito”? chiese. E Pavolini: “Soltanto i primi due”. E della Gherardesca: “Scelgo il terzo”. E io fui scelto».
Nelle interviste il poeta torna spesso sul disadattamento esistenziale ma anche politico: «Se la vita è un labirinto, sono passato in mezzo a innumerevoli interstizi senza riportare gravi danni, non so se per abilità, forse per caso». Altrove: «Ebbi un quarto d’ora di impegno politico e mi iscrissi al partito d’Azione, ma vidi faccende abbastanza strane… Allora mi dimisi e sono rimasto privo di tessera». Quanto poi all’arte: «È la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso, un surrogato». E sulla sua poesia nota: «Le occasioni sono punti fermi del mio passaggio sulla Terra, che ho provveduto a fermare sulla carta. La bufera indica la tempesta che ho dovuto attraversare per raggiungere infine il porto allegro della vecchiaia».
Spiega Castellano: «Montale rispondendo non fa mai un monumento a se stesso, neanche quando ne avrebbe le ragioni. Ha un’alta consapevolezza civile ma non esibisce le sue battaglie. Preferisce ridimensionare e l’understatement anglosassone è la sua cifra». Intervistato sui propri versi, e soprattutto sulle figure che li ispirano, lo scrittore è ancora più telegrafico eppure capace di creare mistero: «Nella poesia Iride c’è una donna che pare voglia perseguire l’opera di Cristo (…) è situata in un paesaggio glaciale, sull’Ontario; e così si intrecciano motivi autobiografici o anche di immaginazione».
Nei ricordi si alternano vita culturale e «bufera» della guerra; l’incertezza politica e il lungo rapporto con Drusilla Tanzi che diventerà sua moglie negli anni Sessanta. E finalmente Milano, il giornalismo, il suo ruolo pubblico sempre più significativo. «Ho cominciato a essere giornalista a 52 anni; un po’ tardi, purtroppo, per assicurarmi una vecchiaia di riposo» commenta Montale nel 1966. «Sono stati anni di consolidamento. Sono come un vino che sta invecchiando…».
Sornione e disincantato, si diverte a schiacciare il «pedale» dell’ironia. Sul Senato, per esempio: «A Palazzo Madama non trovo mai un posto per appendere il cappotto. Sono il solo a non avere il mio nome sotto l’attaccapanni». Castellano aggiunge: «Questo – siamo negli anni Sessanta e Settanta – è il momento montaliano della fama, quello in cui viene richiesto dei pareri più bizzarri. Si va dal “primo uomo sulla Luna”, nel 1969, ai luoghi di vacanza per i classici articoli estivi dei giornali sui vip…».
Montale però non delude mai. I suoi giudizi sono sempre sul filo del paradosso. Così afferma che «l’analfabetismo è una forma primordiale di saggezza che distingue il bene dal male…». La vera ignoranza, invece, è «quella di chi crede di sapere, la boria, la saccenteria, tutto quello che rende antipatico un individuo e che, d’altra parte, ne favorisce anche l’affermazione». Ideologicamente distaccato ma informatissimo, chissà cosa potrebbe direbbe sulla sostanza della classe politica di oggi.
Il Montale morale, a volte moralistico, è snob e gioca con i suoi interlocutori; fa l’intollerante con i giovani, odia il cinema, non sopporta le espressioni di massa. Però è sempre autoironico e, ai tempi del Nobel, sullo scrivere poesia per cui «mi vengono buoni tutti i pezzettini di carta, anche i biglietti del tram», si esprime così: «È un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo». Conclude Castellano: «In queste risposte, al di là di tic e idiosincrasie, risaltano lo spessore delle idee di Montale, la curiosità, l’interrogazione costante. Caratteristiche riassumibili anche con la sua bella definizione di “decenza quotidiana”».
Così quando a lui, «non credente», viene chiesto dell’aldilà, replica con una suggestione che sembra uno dei suoi ultimi versi: «Dobbiamo fare i conti con i vivi ma anche con i morti… forse i morti non sono morti come a noi sembra… in qualche modo ci vedono». In tarda età, Montale rivolge ai posteri questa fulminante raccomandazione in versi: «Vissi al 5%, non aumentate/la dose». Se anche fosse vero, resta un 95% di poesia e di pensiero che in queste interviste continua a risuonare.
