Politicamente scorretto, immune alle mode culturali, geniale nelle trame feroci dei suoi romanzi. L’autore di Fight Club è un narratore che non accetta mai comodi compromessi. E la sua lotta continua con la vita – punteggiata però da momenti
di irresistibile ironia – entra direttamente nei libri, come quello appena uscito in America.
Il vero Fight Club, probabilmente, è la vita di Chuck Palahniuk. Nel 1996 lo scrittore americano (nato nel 1962) scrisse quello che sarebbe diventato uno dei romanzi più famosi della storia. Solo che, quando uscì, non se lo filò praticamente nessuno. «Dopo il mio primo tour promozionale» racconta Chuck in Tieni presente che (il suo strambo «manuale di scrittura» pubblicato da Mondadori) «avevo abbandonato ogni velleità di sfuggire alla fabbrica. Alla presentazione da Barnes & Noble in centro a Seattle avevano partecipato due persone. A San Francisco, dove mi feci un paio d’ore di macchina per raggiungere Barnes & Noble di Livermore, non venne nessuno».
Ci sarebbero voluti tre anni e il film di David Fincher con Brad Pitt ed Edward Norton per trasformare il libro d’esordio di uno sconosciuto quasi proletario bianco in un bestseller mondiale. Nell’attesa che la sua carriera di scrittore diventasse in effetti una carriera, Palahniuk ha continuato a lavorare alla Freightliner Trucks, «alla catena di montaggio dei camion, dove avevo iniziato i turni serali nel 1986». Tredici anni di officina: una cura che gioverebbe a tanti pretenziosi autori italiani.
Viste le premesse, sarebbe potuta finire molto peggio. Considerando l’infanzia che ha avuto – a Burbank, Washington – Chuck sarebbe potuto finire a pestarsi per strada come uno dei suoi personaggi (cosa che ha fatto per un po’, onde sfogare la rabbia) per un cartone di vino o una dose. Suo padre, Fred, lavorava per le ferrovie e divideva il tempo libero fra le bevute al pub sotto casa e feroci litigi con la moglie. Quando il piccolo Palahniuk aveva 14 anni, Fred se n’è andato di casa, ma ha comunque trovato il tempo, negli anni successivi, per sconvolgere ulteriormente l’esistenza del figlio.
Al compimento della maggiore età, per dire, gli svelò come morirono i suoi nonni (Chuck pensava che li avesse portati via la difterite). La storia l’ha raccontata, ormai diversi anni fa, l’edizione americana di Rolling Stone, e sembra proprio una faccenda da romanzo horror. Un bel giorno, il nonno di Palahniuk, fuori di sé, si presentò a casa armato. Sparò alla moglie, uccidendola, e poi si mise a cercare il figlio, per far fuori anche lui. Il pargoletto si era nascosto bene, e rimase rintanato finché il vecchio impazzito non decise di rivolgere la pistola verso di sé per suicidarsi.
Aspettate, però, perché questo non è l’ultimo fatto di sangue che abbia squarciato la biografia del nostro eroe. Dicevamo di Fred Palahniuk, il padre di Chuck. Ebbene, quando lo scrittore aveva 37 anni, ed era già una celebrità, il suo esuberante genitore iniziò una relazione con una donna chiamata Kismet. Durò il tempo di tre appuntamenti: l’ex marito della donna, folle di gelosia, si presentò a casa sua e aprì il fuoco contro di lei e contro Fred, fulminandoli entrambi. Compiuto il delitto, pensò bene di bruciare i corpi.
Ecco, questi due episodi basterebbero a stroncare chiunque. Va detto che, almeno un po’, Palahniuk ne ha risentito. Ancora adesso pare frequenti gli alcolisti anonimi, ma alle sue personali disgrazie non fa molta pubblicità. A dispetto della brutalità dei suoi romanzi e di racconti come il celeberrimo Budella (un testo che, durante le affollatissime letture pubbliche, ha provocato più di uno svenimento), il romanziere non ha mai assunto pose da maledetto o da ribelle.
Di sicuro, poi, non ha mai indossato i panni caldi della vittima. Palahniuk è gay, ma della sua omosessualità non ha mai fatto una bandiera né una posizione politica. Anzi, sull’ideologia Lgbt ha infierito spesso. Nel suo Adjustment Day (tradotto in italiano come Il libro di Talbott) ha immaginato un’America divisa in tre sotto Stati: Blacktopia, Caucasia e Gaysia. Un modo piuttosto intelligente per satireggiare l’ossessione statunitense per le identità, la stessa che anima movimenti come Black lives matter, i suprematisti bianchi o gli attivisti arcobaleno più fanatici.
In un’intervista rilasciata al Guardian non molto tempo fa, Chuck – con la signorile eleganza che lo contraddistingue – è riuscito pure a punzecchiare la comunità gay fissata con l’idea di avere figli, costi quel che costi. Parlando dello Stato arcobaleno del suo romanzo, Palahniuk ha spiegato che «non ci sono arte o musica a Gaysia – la sola forma di espressione consiste nell’avere figli. I gay hanno sempre prodotto tanta cultura perché si sono allenati a essere attenti. Perché tutto ciò che li teneva in vita veniva dall’osservare gli etero, dallo scimmiottare e imitare il loro modo di essere in modo da non venire distrutti. I gay hanno poi usato quelle capacità di osservazione per fare cose belle che hanno giovato alla cultura generale. Ma avere figli è un lavoro a tempo pieno, non ti lascia molto tempo per essere, per esempio, uno scultore. Io e molte persone della mia generazione, una generazione più anziana, ci siamo resi conto che per le persone gay avere figli è diventato un modo di esprimersi, e li fa rinunciare a questo incredibile patrimonio di espressione artistica».
Va detto che nemmeno con le femministe Chuck ci è mai andato leggero. Fight Club è diventato, negli anni, un manifesto della mascolinità, il grido di rabbia di «una generazione di uomini cresciuti da donne». Un manifesto in evoluzione, che ha partorito due figli sotto forma di fumetti: Fight Club 2 e 3 (solo il primo è uscito in Italia).
La figura maschile, del resto, è spesso al centro dell’opera di Palahniuk. Anche nel suo nuovo romanzo, appena uscito negli Stati Uniti, ha tra i protagonisti un uomo che non smette di combattere: un padre a cui è stata strappata orribilmente la figlia e si è scelto come missione la ricerca (se possibile, la soppressione) di pedofili e predatori sessuali. Il libro si intitola The Invention of Sound ed è, sotto molti punti di vista, un horror. Ma sempre intriso di satira sociale, perché questa è la cifra del nostro geniaccio.
La violenza, ovviamente, non manca, ma non è mai gratuita. Anche sotto questo punto di vista lo scrittore va contro il pensiero dominante. Cerca di far emergere il rimosso: viviamo in una società che tenta di nascondere l’aggressività sotto un velo di sedazione scambiata per pace. Chuck solleva la coperta e tutta la polvere viene fuori in un colpo. Chi non soffoca si gode lo spettacolo. Un viaggio fra i reietti e i dimenticati, quelli veri. I maschi bianchi arrabbiati, i «forgotten men» delle classi lavoratrici, i poveracci e gli spiantati. Siamo dalle parti di John Steinbeck, insomma, solo con tanto sangue sulle pareti in più.
È anche per via di questa sua sensibilità particolare che Palahniuk si tiene alla larga dall’impegno esplicito. Non bercia contro Donald Trump come molti amano fare per garantirsi facile pubblicità («Trump è bianco, etero, una combinazione dei capelli della Thatcher e del corpo di Reagan, è il tipo perfetto contro cui protestare» ha ghignato con qualche giornale).
Se proprio dobbiamo trovare un «messaggio» nella sua opera, potremmo rintracciarlo nell’invito alla «scoperta di sé» in senso junghiano (dopotutto Chuck è stato un appassionato lettore di Joseph Campbell, oltre che dei romanzi del suo maestro di scrittura, Tom Spanbauer). Nel suo personale «viaggio dell’eroe», le prove del fuoco sembrano non finire mai. Poco più di un anno fa, il suo agente letterario è stato arrestato per truffa. Gli ha portato via i profitti degli ultimi tre libri, lasciandolo praticamente sul lastrico.
Sapete come ha reagito Palahniuk? A misfatto ancora caldo, mentre si trovava sull’orlo del fallimento, ha detto a un giornale: «Sono davvero entusiasta». Perdere i soldi lo ha spinto a lavorare di più, a scrivere di più, a entrare nel mondo della tv (sfornando a ripetizione progetti per nuove serie). «Vorrei fosse andata diversamente» ha sorriso «ma ne tirerò fuori il meglio». Così si comporta un guerriero: nel Fight Club si smette di combattere quando qualcuno grida «Basta!». E Chuck non è il tipo da gettare la spugna.
