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La Beat generation oltre gli stereotipi

La Beat generation oltre gli stereotipi

Jack Kerouac e William Burroughs. Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti. Scrittori e poeti idolatrati quali protagonisti della rivolta alla società americana, hanno invece personalità più complesse e interessanti. Come emerge da una rilettura delle loro opere e testimonianze.


Alla bell’età di 78 anni, William Burroughs aveva un metodo piuttosto particolare per tenersi in forma: «Non fumo molta erba. Beh… due o tre canne al giorno». In aggiunta, una alimentazione sana: «Io non avrei problemi a stare senza carne. Mi piace, ma anche solo le patate e il sughetto dell’arrosto. Riso e sughetto… Verdure. Per me andrebbe benissimo così». Niente concessioni al cibo industriale, al pollame degli allevamenti intensivi: «Le uova hanno il guscio sottile, non sanno di niente. Ma alla maggior parte degli americani non importa nulla, mi sa. Non credo sentano il sapore del cibo… terribile. Tra non molto, lì non ci saranno più esseri viventi, nessuna traccia di creature, solo contenitori di uova. Già adesso, però, i polli allevati così sanno di strutto. Strutto con un vago aroma di brodo di pollo».

Il grande scrittore aveva pure una ricetta collaudata per preparare la zuppa: «Uno stufato, sì, una specie di brodo spesso… Prendo… spolpo il pollo e prendo tutti gli ossi, la carcassa, e ci faccio il brodo. E poi nel brodo cuoci le verdure, con patate, porri, cipolle, carote, beh, tutto quello che vuoi. Non è poi tanto diversa da una zuppa. Ma alla fine, rimetti dentro tutta la carne e la riscaldi».

Allen Ginsberg procedeva in modo leggermente diverso: «Io, invece, metto semplicemente il pollo tagliato a pezzi… E lo faccio bollire. Sì, e lo faccio bollire un po’, poi, quando è quasi pronto, dopo mezz’ora, aggiungo le verdure». Burroughs e Ginsberg discutevano di pennuti e zuppe attorno a un tavolo di una casa a Lawrence, in Kansas, dove William si era trasferito per godersi in pace la vecchiaia. Era il 1992, e l’amico Allen – forse il poeta più famoso d’America – lo aveva raggiunto per intervistarlo.

Era da poco uscito nelle sale Il pasto nudo, capolavoro di David Cronenberg tratto dal libro di culto di Burroughs, e il successo era stato tale che l’Observer Magazine di Londra aveva proposto a Ginsberg di farsi una bella chiacchierata con il suo vecchio compagno di scorribande. Tutte le conversazioni furono registrate su nastri, che Steven Taylor (assistente di Ginsberg) ha conservato, sbobinato e preparato per la pubblicazione.

Il risultato è un volume eccezionale intitolato Non nascondermi la tua pazzia, appena pubblicato in Italia dal Saggiatore. Oltre alle singolari ricette, il libro contiene una marea di aneddoti, commenti e ricordi dei due numi tutelari della letteratura Beat. Ed è stupefacente rendersi conto, oggi, di quanto siano potenti le riflessioni dei due scrittori (quelle di Burroughs in particolare).

Chissà, forse è stato il brodo di pollo a conservarli fisicamente in forze fino al 1997, l’anno in cui sia Allen che William hanno lasciato questo mondo. A Lawrence Ferlinghetti, il fondatore della libreria/casa editrice City Lights e volto «istituzionale» del movimento, è andata anche meglio: ha 101 anni, e l’anno scorso ha pubblicato un libro nuovo e interessante, una sorta di autobiografia onirica intitolata Little Boy (Clichy).

Forse dovremmo chiederci perché, ancora adesso, continuiamo a parlare di questi stravaganti gentiluomini. Di sicuro le loro scoppiettanti biografie aiutano: sono dense di mattane, follie, episodi grotteschi e comici. Ma c’è anche qualcosa di più, che riguarda l’aspetto strettamente letterario della Beat Generation. Truman Capote sosteneva che Jack Kerouac non scrivesse ma battesse a macchina. Be’, a 51 anni esatti dalla sua morte, vale la pena di riprendere in mano le sue opere (che Mondadori ha ristampato integralmente nella collana Oscar) per rendersi conto che le cose non stanno proprio così.

Tutti i Beat, o almeno le figure principali del movimento, hanno sfornato pagine gonfie di vita: sono stati in grado – pur con i loro infiniti eccessi – di riconciliare la letteratura con il corpo e lo spirito. Tanto sperimentali, forse troppo. Tanto disordinati, forse troppo. Poco raffinati, non c’è dubbio. Ma che forza, che energia nei loro testi… Il corpo elettrico di Walt Whitman abita nella stessa via, proprio accanto al respiro fresco e naturale di Henry David Thoreau, e alle scalmane jazz di Louis-Ferdinand Céline, che Burroughs cita tra le sue principali influenze.

Proprio come Whitman, i Beat sono stati capaci di cantare le membra, la carne (e quindi anche la realtà, la fatica, le passioni). Senza però lasciare da parte l’anima. La loro ricerca spirituale – tra sufismo, yoga e droghe psichedeliche – è stata in parte fagocitata e oscurata dall’ondata New Age. La controcultura statunitense, molto schierata a sinistra, si è appropriata di questo manipolo di ribelli (in stile Junger) e li ha banalizzati, tramutati in stereotipi. Li ha dipinti come i profeti dell’orgia dei Sixties.

Kerouac lo aveva intuito già nel 1948. Nel suo diario (pubblicato in Italia con il titolo Un mondo battuto dal vento) scrive: «Abbiamo i nostri reichiani, i nostri orgonisti, che, per la maggior parte, fumano marijuana, ascoltano jazz be-bop frenetico, credono nell’omosessualità (…) e stanno iniziando a riconoscere l’esistenza di una specie di “malattia atomica”. In più tutti questi individui sono nemici della “cultura borghese”. Di sicuro sta per succedere qualcosa, una forma di follia, non lontana da quella tardo-romana delle sette. Come stavo dicendo, non è ancora iniziata. La disperazione che in Francia deriva dall’esistenzialismo, dal dolorismo e roba del genere è niente paragonato a ciò che avremo qui».

Ci aveva visto giusto, considerando ciò che sarebbe accaduto nel ventennio successivo. Purtroppo i Beat sono stati trascinati a forza nel calderone di strafattoni e capelloni statunitensi. Ma, appunto, leggendo senza pregiudizi quanto hanno scritto si apre un universo vasto e sconosciuto. Forse solo Ginsberg corrisponde in parte all’immaginetta di monumento «alternativo» che gli è stata disegnata addosso. Burroughs e Kerouac, invece, ne sono lontani anni luce.

Una parte consistente delle conversazioni tra William e Allen riguarda la visita di uno sciamano a casa di Burroughs. Egli era convinto di essere posseduto da uno spirito del male, e intendeva estirparlo. Così invitò – grazie alla mediazione di un amico antropologo, Bill Lyon – il nativo Melvin Betsellie. Costui fece partecipare Ginsberg e Burroughs a vari riti, si chiuse assieme al loro in una capanna sudatoria, dove Burroughs a un certo punto si sentì mancare il respiro, pensando che sarebbe finita male.

Potremmo fermarci al lato curioso dell’episodio, e ai passaggi divertenti. Per esempio il momento in cui Lyon e Burroughs contrattano sui soldi da dare allo sciamano: William pensa di sganciare 190 dollari, ma Lyon non è d’accordo: «Ai miei sciamani io ne do sempre 500, quando celebrano rituali di guarigione e simili. Se un tizio esegue un rito che dura quattro giorni, lo pago 2.000 dollari. Perché li tratto come se fossero medici sai, è così che mi regolo io». Al povero Burroughs toccherà sganciare i suoi 190 più altri 500: una marea di denaro.

Il fatto, però, è che dalla discussione sulla capanna sudatoria e dalle tirate un po’ buoniste di Lyon scaturisce un interessante dibattito sull’esorcismo, in cui Burroughs rivela di aver letto alcuni testi di sacerdoti cattolici. Di sicuro William non è cristiano, però è disposto a credere, mostra un’apertura mentale e spirituale che oggi probabilmente verrebbe derisa dai più.

Kerouac, invece, al cristianesimo era molto legato per ragioni di famiglia. Davide Brullo, in un bell’articolo su Pangea, ha smontato la figurina di Jack come emblema dell’edonismo liberal, citando l’opera di Robert Inchausti, professore emerito alla California State Polytechinic University. Da quel saggio esce un Kerouac «mistico», un esploratore spirituale che ha preso senz’altro strade oscure come molti dei suoi compagni (alcol, droghe, sesso sfrenato), ma si è reso comunque conto che, senz’anima, il corpo è solo un ammasso di organi.

«La letteratura», scriveva Jack nel diario, «non significa necessariamente una lacerazione ossessiva delle cose. Può anche voler dire conoscere le vite di tutti gli uomini e la loro percezione di sé, ovunque essi siano. Sono un gran numero di cose inesplorate!». Poi concludeva: «Per la mia vita privata ci vorrebbe una tranquilla esistenza casalinga che compensi l’irrequieta vita mentale… Altrimenti brucerei velocemente».

Ecco, di certo nessuno dei Beat ha avuto una tranquilla esistenza casalinga, e soprattutto Kerouac è bruciato in fretta. Ma le sue opere, assieme ai sogni di Burroughs, alle urla di Ginsberg e a qualche guizzo di Ferlinghetti e degli altri, sono rimaste. E ancora adesso parlano a chi ha voglia di ascoltare, sotto il fragore mediatico, il sussurro dello spirito.

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