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Il fascino leggendario degli eroi fantasy

Il fascino leggendario degli eroi fantasy

Siamo ammaliati dalle gesta folgoranti nelle serie fantasy perché parlano di mondi estremi. Dove ogni essere umano che affronta una prova può diventare leggenda.


Un bel giorno David Benioff, scrittore di vaglia e dominus della serie televisiva Game of Thrones si ritrovò in mano uno «scaldapene». Si tratta della protezione che gli attori utilizzano sul set quando devono girare scene di sesso particolarmente infuocate, al fine di non toccarsi con le parti intime. Jason Momoa, il gigantesco modello e attore che nello show interpretava Khal Drogo, capo dei dothraki, ne utilizzò uno durante le riprese di un «incontro» con Emilia Clarke, che sullo schermo impersonava Daenerys Targaryen, sposa (forzata) di Drogo e futura regina «madre dei draghi».

Momoa ci teneva a utilizzare la copertura, per rispetto nei confronti della sua vera moglie. Ma Benioff continuava a prenderlo in giro, e così l’attore, all’ultimo ciak, gli si avvicinò e – lasciandolo di stucco – gli mise in mano lo scaldapene fresco d’utilizzo. L’aneddoto viene raccontato, tra grasse risate, nel libro Il fuoco non uccide un drago di James Hibberd, appena pubblicato da Mondadori. È una sterminata collezione di dietro le quinte, pettegolezzi e curiosità sul Trono di Spade, forte di una miriade di interviste ai numerosissimi attori protagonisti. Un prodotto adatto ai fanatici della serie, che ancora non si sono rassegnati al fatto che sia giunta al termine ormai da parecchio tempo.

Episodi come quello dello scaldapene rientrano nella goliardia hollywoodiana, e di sicuro non mancheranno di interessare i nerd sparsi per il globo che conoscono a memoria ogni episodio di GoT, come viene amichevolmente chiamata. Eppure, scorrendo il ponderoso tomo, c’è qualcosa che stona. È come se le battutacce, i racconti scollacciati e le confessioni dei divi riducessero il Trono di Spade a ciò che è realmente: un gigantesco baraccone d’intrattenimento che ha trasformato tanti illustri sconosciuti in star planetarie. Sapere che ci sono degli attori dietro i personaggi, che tutto è stato girato su un set davanti a occhiute telecamere riporta la guerra per il trono a una dimensione mondana, terrena. Gli leva un po’ della magia che lo ha contraddistinto e che ha catturato milioni di persone per otto intense stagioni.

Il «segreto» della serie, infatti, non sta tanto nei retroscena e nelle rivelazioni pruriginose, ma nella sua filosofia. Nella sua capacità di portare lo spettatore in un altro mondo che è senz’altro fantastico e immaginario ma pure drammaticamente reale. GoT è stato, a tutti gli effetti, un capolavoro di epica, o anche – come scrive Tommaso Ariemma – «un’educazione al fuoco, inteso anche come riferimento a quella forza ancestrale del raccontare che il raccogliersi intorno al fuoco evoca» (dal libro Game of Thrones. Imparare a stare al mondo con una serie tv, edito da Il Melangolo).

Il Trono di Spade, insomma, funziona perché ci offre qualcosa che oggi ci manca in maniera potente. Ci riporta, tanto per cominciare, all’interno di una dimensione tragica della vita, cioè quella tipica della civiltà greca e dei poemi omerici. «In Omero» scrive il filosofo Salvatore Natoli (Uomo tragico, uomo biblico, Morcelliana), «natura, dèi, uomini sono descritti come potenze opposte e in conflitto: e questo in tutta la sua spietatezza». E ancora, i greci videro una natura «dissipatrice e violenta e del tutto indifferente alle sorti degli individui».

Così è anche in Game of Thrones, che di violenza ne mette in scena a bizzeffe, infatti. I personaggi, anche quelli più amati a apparentemente insostituibili, muoiono in fretta, sconcertando lo spettatore. Pensate a Ned Stark: nella prima stagione sembra essere il vero protagonista e invece… Decapitato e addio. Questa è la dimensione tragica: sapere che la morte è sempre presente, fa parte dell’esistenza, e bisogna affrontarla in un modo o nell’altro.

È una visione radicalmente diversa da quella in cui siamo immersi. Oggi tendiamo a nasconderla, la morte. Cerchiamo di sconfiggerla in ogni modo possibile. Vogliamo una società «a rischio zero», fatta di occhiuta prevenzione, di controllo e sorveglianza. Il greco, invece, sa che la sofferenza e, appunto, la morte fanno parte dell’ordine delle cose.

L’importante, semmai, è morire da eroi, onde rimanere per sempre, poiché gli eroi non muoiono: si ritirano, scompaiono, ma sono in fondo immortali. Il Trono di Spade ci regala questo: una corsa selvaggia in un universo in cui esistono ancora eroi. In cui la violenza è esplicita ma più sana. Certo, non mancano crudeltà e spietatezza, ma non c’è spazio per il piagnisteo. Ogni singolo personaggio – dal nano Tyrion Lannister alla piccola Arya Stark al tormentato Jaime Lannister – compie il suo «cammino da eroe», tocca al fondo per poi riemergere cambiato. È protagonista di un percorso d’individuazione, come l’avrebbe chiamato Carl Gustav Jung, e ci mostra la realtà dell’umano.

Nel Trono, insomma, sentiamo ribollire valori antichi che abbiamo perso, e che però – nascosti da qualche parte – sono ancora dentro di noi. Ci basta rivederli sullo schermo, o in un libro, per avvertirne il fascino. Il pubblico italiano, per esempio, freme seguendo Romolus, la serie di Matteo Rovere (regista dell’acclamato Il primo re) su Sky. Qui siamo agli albori di Roma, tra gli antichi popoli del Lazio, e di suggestioni da Trono di Spade ce ne sono parecchie. C’è violenza, c’è sesso, c’è lo stesso battito primitivo che si avvertiva in alcuni film di Mel Gibson. C’è, insomma, l’umanità che non abbiamo più, ma da cui siamo inesorabilmente attirati.

Non è un caso che le saghe fantasy – le quali ci riportano per qualche momento fra le braccia della magia – godano ancora di così tanto successo. Le ennesime riedizioni dei romanzi di J.R.R. Tolkien, pur nella discutibilissima nuova traduzione, continuano a vendere. Vengono riscoperti autori finora sconosciuti come Naomi Mitchison, di cui Fazi ha appena pubblicato Il viaggio di Halla, una sorta di «Signore degli Anelli in versione femminile».

La Mitchison fu allieva e corrispondente di Tolkien, ebbe l’onore di leggere le sue bozze, e ne apprese la lezione anche se alla fine la politica li allontanò (lei divenne una femminista piuttosto convinta). Nel romanzo della Mitchison non è l’ideologia ad attirare e ad avvincere: è il pizzico di tradizione che innerva la storia.

La stessa tradizione che anima il Trono di Spade, che in realtà è quanto di meno ideologico sulla piazza. Pensateci: è pieno di personaggi «diversi», quelli che ai nostri giorni verrebbero imprigionati all’interno di una «minoranza». E invece in GoT ciascuno di loro ha la sua dignità senza rivendicazioni sindacali, solo perché se la guadagna: semplice e straordinario.

Oggi l’Occidente sostituisce gli eroi con le vittime. Venerando i presunti «sconfitti», crede di innalzarli, e invece li reclude nella loro gabbietta. Nella dimensione tragica del Trono di Spade, se compie il giusto cammino, anche la vittima può diventare eroe: sottile differenza, ma fondamentale.

Pure il debole, se trova il coraggio (o se è costretto dalle circostanze) ad affrontare la prova del fuoco, può morire al mondo e rinascere come essere umano pieno, vivo, forte. Che sia un guerriero, un monaco, un re, una principessa o un lavoratore poco importa: in ogni strada c’è qualcosa di eroico. E questo qualcosa è il «senso della vita», il significato che tutti cerchiamo e che ora sembra per sempre perduto.

Per questo abbiamo amato tanto queste serie fantasy. Perché per un momento ha brillato in noi una scintilla antica. Poi sono arrivati i titoli di coda e con tristezza ci siamo resi conto che eravamo seduti sul divano del salotto, con un solo fuoco a disposizione: non il fiato di un drago, ma le fiamme del forno a legna che aveva cotto la pizza consegnata dal rider.

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