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La Comune, madre di tutte le ribellioni

La Comune, madre di tutte le ribellioni

Cade l’anniversario dell’insurrezione che ha gettato le basi per le rivoluzioni del Novecento. E nelle «memorie» di Louise Michel, protagonista della rivolta, emerge il valore della libertà, che prescinde da steccati ideologici ed esalta il vero sentimento popolare.


«Ci sono momenti in cui le folle sono solo l’avanguardia dell’oceano umano. L’altura era circonfusa di luce chiara, un’alba splendida di liberazione. A un tratto vidi mia madre accanto a me e provai un’angoscia spaventosa: era venuta anche lei, preoccupata. Tutte le donne erano salite insieme a noi, non so come. Era una vittoria popolare, non era la morte che ci attendeva sulle alture dove l’armata allineava già i cannoni per unirli a quelli di Batignolles rubati nella notte. Le donne si avventano sui cannoni, sulle mitragliatrici fra noi e l’armata: i soldati restarono di stucco. Mentre il generale Lecomte ordinava di fare fuoco sulla folla, un sottufficiale uscì dalle file e si stagliò di fronte alla sua compagnia gridando ancora più forte: “Calcio in aria!”. I soldati obbedirono. Era Verdaguerre, che per questo venne fucilato da Versailles pochi mesi dopo. La rivoluzione era iniziata».

Era iniziata, e lei era lì, in prima fila, a veder sorgere l’alba della Comune di Parigi. Louise Michel, il 18 marzo del 1871, fu tra i grandi protagonisti dell’insurrezione che instaurò il governo socialista nella capitale francese. Ne osservò l’inizio, ne visse lo sviluppo, ne constatò amaramente la fine. Nata nel 1830, negli anni Sessanta dell’Ottocento aveva aderito all’Internazionale e nel 1873 pagò caro il prezzo del suo impegno sul campo: sconfitta la Comune, fu deportata in Nuova Caledonia, dove rimase fino all’amnistia del 1880. Tornata in Francia, ricominciò da dove aveva lasciato: riprese a militare fra gli anarchici, scrisse e pubblicò, girò come una matta per conferenze, fu di nuovo arrestata nel 1890. Prima della morte (giunta nel 1905) completò un lungo e dettagliato resoconto dei fatti parigini del 1871, che ora – in occasione dell’anniversario della rivoluzione – viene ripubblicato dall’editore Clichy col titolo La Comune.

«Per capire la tempra della donna di cui stiamo parlando basta guardare il suo ritratto più noto, una fotografia a mezzobusto», scrive la curatrice del volume, Chiara Di Domenico. «Seduta, le braccia conserte, si intravede lo schienale di una seggiola, si vede un vestito austero e decoroso, senza fronzoli. Come i suoi capelli tirati indietro e disordinati, la bocca che non cede a un sorriso da fotografia, gli occhi vivi che ci fissano intensamente». Louise Michel, professione insegnante, fu a tutti gli effetti la «Vergine della Rivoluzione». Completamente, intellettualmente e fisicamente devota alla causa. Anche dopo la sconfitta, continuava a ripetere: «La folla oggi è muta, ma domani ruggirà come l’Oceano. Torneremo, fiumana senza numero, spettri vendicatori, verremo tenendoci per mano».

A leggere oggi le sue pagine viene da ammirarla: com’è diversa dalle presunte rivoluzionarie dei nostri tempi. Nelle sue parole non c’è spazio per il lamento o il vittimismo. C’è, invece, una rivendicazione della differenza femminile che non diventa mai cancellazione del maschio: «Di certo, le donne amano la rivolta» scriveva Louise. «Non valiamo più degli uomini, ma a differenza loro il potere non ci ha ancora corrotte. E infatti, io le amavo e loro mi ripagavano con lo stesso affetto». A lei non andava giù che si volesse fare «delle donne una casta». Se combatteva, era per difendere gli interessi del popolo e – incredibile a sentirsi oggi – «della Patria».

Le sue memorie non sono soltanto avvincenti come un romanzo o affascinanti come potrebbe esserlo una bella serie televisiva (e chissà se a qualcuno mai verrà in mente di realizzarla). Costituiscono anche una lezione fondamentale sul significato profondo delle rivoluzioni e sui mutamenti della sinistra avvenuti dalla fine dell’Ottocento a oggi. In questi giorni la Comune di Parigi viene molto celebrata dai progressisti. Si recensisce con gusto il romanzo di Hervé Le Corre ambientato nel cuore della rivolta, All’ombra dell’incendio (che però resta inferiore sotto vari punti di vista al libro della Michel). Si spendono parole d’ammirazione per l’impegnatissimo saggio di Kristin Ross (Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi). Ma sembra non si voglia andare al cuore del problema. Gli intellettuali contemporanei s’aggrappano alla Comune e la eleggono a modello perché resta una rivoluzione senza troppe macchie.

È durata poco, è stata repressa nel sangue. Non è sfociata – anche se le premesse c’erano – in una sanguinaria macchina di morte e oppressione come il comunismo reale. Dunque resta un sogno puro e valido, per i socialisti odierni. Tuttavia possiamo dire che la Comune sia l’archetipo delle rivoluzioni socialiste, l’evento che ne rappresenta tutte le ragioni e, insieme, tutti gli elementi che portano, immancabilmente, alla sconfitta o al disastro. Non è un caso che la bandiera rossa – poi tragicamente nota – abbia sventolato per la prima volta nelle strade di Parigi. Non è un caso che Karl Marx abbia dedicato un libro di successo agli eventi francesi e li abbia descritti con afflati metafisici: «Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti».

La Comune, insomma, arriva prima dei regimi novecenteschi, li anticipa e ne svela già – a chi voglia osservarla senza pregiudizi – tutti i lati deleteri. Il primo fu senz’altro la persecuzione religiosa. Nel 1871 gli insorti presero la capitale. Si opponevano al governo repubblicano di Adolphe Thiers, nato dopo la sconfitta della Francia a opera della Prussia e il rapimento di Napoleone III. I comunardi iniziarono a infierire sui preti. Arrestarono l’arcivescovo di Parigi, Georges Darboy, e chiesero di scambiarlo con uno dei loro ideologi, Auguste Blanqui, detenuto da tempo. Il governo rifiutò, e il vescovo fu giustiziato. «Si scatenò la persecuzione anticristiana», ha scritto Gianni Vannoni. «Incarcerazione di sacerdoti, chiusura e profanazione di chiese, soppressione di congregazioni religiose».

Anche gli oppositori e i moderati non ebbero grande fortuna, molti furono passati per le armi. Non fu uno sterminio scientifico come quello sovietico, ma era comunque un segnale. Infierirono sui fedeli, i comunardi. Del resto tanti di loro appartenevano alla massoneria, che da qualche tempo aveva aperto le porte delle logge anche a operai e proletari. Pierre Joseph Proudhon e Auguste Blanqui, che furono appunto due dei padri nobili della sovversione – erano entrambi attratti dai «fratelli» e, soprattutto il secondo, affascinati dalle suggestioni esoteriche. Si può perfino affermare che la massoneria, in qualche modo, pilotò la rivoluzione.

Comunque sia, è indubbio che i comunardi furono uno strumento. Notava ancora Vannoni: «Nei 72 giorni di regolata anarchia la Banca di Francia, con le sue formidabili riserve auree, non è stata nemmeno toccata; e tra le rovine cineree che lo circondano il palazzo dei Rothschild spicca per la sua integrità, neanche sfiorato dalla furia incendiaria dei comunardi». Curioso, no?
In compenso, quei poteri trassero vantaggio dall’insurrezione. Non ne furono toccati, ma approfittarono del regime repressivo e iper restauratore che ne seguì, una reazione che forse era addirittura programmata. Qui c’è un altro messaggio alla sinistra: spesso, le istanze dei rivoluzionari si rivelano utili alla causa del potere.

Ecco l’ombra del socialismo: finisce per favorire altri e più segreti interessi, o sfocia nella violenza. Oggi, poi, ha perso la carica realmente sociale degli inizi: dopo tutto, i comunardi e Louise Michel combattevano per il popolo, per gli affamati e i reietti che anche Paul Verlaine, in un componimento dedicato alla Michel, descrisse con parole commoventi. Oggi gli attivisti di sinistra combattono per ben altro (le minoranze, il femminismo…). Forse, allora, di questi tempi la Comune ha più da insegnare ai conservatori e ai cosiddetti sovranisti. Se qualcosa c’è da salvare – a parte il bel libro di Louise Michel – è l’attenzione per il popolo affamato, per la Patria vessata, per gli uomini e le donne oppressi da governanti inetti. Queste istanze resistono. Ma l’esempio parigino mostra che non può essere il comunismo a risolverle.

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