Da «drive through» a «cashless», da «green economy» a «droplets»: basta sfogliare un quotidiano o seguire un tg per ritrovarsi assediati da termini esportati da oltre Manica. I primi a esibire questo linguaggio, quasi sempre in modo inutile, (a volte ridicolo) sono i politici. Per darsi un tono «internazionale». E non farsi capire.
In un annuncio agli italiani, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha usato la locuzione «vax-day» per definire l’avvio delle vaccinazioni. Non è la sola volta che, durante la pandemia, membri delle istituzioni hanno preferito termini anglofoni al posto di quelli italiani in comunicazioni importanti. A pochi giorni dall’inizio dell’anno in cui si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, abbiamo sentito ministri della Repubblica ed esponenti di tutte le forze politiche introdurre nel dibattito pubblico innumerevoli parole inglesi: «cashback» per rimborso, «cashless» per pagamento con carta, «recovery plan» per piano di ripresa, «green economy» per economia verde.
Ancora: «drive through» per tampone in auto, «hotspot» per punto di concentrazione, «droplet» per gocciolina, «park runner» per corridore nel parco. E se si va un po’ indietro nel tempo si arriva al termine simbolo della recrudescenza della malattia da abuso di anglicismi: «lockdown», che avrebbe avuto una vasta gamma di sostituti, da serrata a confinamento, fino a segregazione e chiusura forzata. Tutti vocaboli ormai inutilizzabili perfino in un’opera letteraria tanto suonerebbero lontani dall’uso comune.
La distruzione di una lingua è certo un fenomeno collettivo, ma mai come in quest’ultimo periodo abbiamo assistito a vere picconate da parte delle istituzioni. Di tutta la terminologia relativa all’epidemia era rimasto solo «coronavirus», che conservavamo fieramente come «nostro», finché il ministro Luigi Di Maio non lo ha pronunciato all’inglese (coronavairus). Un calcio alla sua storia etimologica: «corona» ha la radice kar di «curvo», «cornice», «circo», e per i latini era ogni cosa che poteva piegarsi, come le trecce di fiori offerte agli dei; e almeno fino alla fine dell’Ottocento, con la scoperta dei primi agenti patogeni, virus significava «secrezione velenosa».
Diamo un’occhiata al sito del ministero dell’Economia e delle Finanze. Dalla pagina dedicata al «cashback» dopo un paio di click ecco finalmente una spiegazione: «Che cos’è il cashback?». Alla prima riga leggiamo: «È una delle iniziative del Piano Italia Cashless». Alla decima riga troviamo il termine «e-commerce», alla tredicesima «acquirer convenzionato», alla diciottesima «direct debt» per finire con «issuer convenzionati».
Alla domanda «C’è una data specifica entro cui aderire?», il sito del ministero risponde «No, non si tratta di un click day», che ricorda il vax day, l’election day e così via. Anche chi non vuole eccedere nell’eccessivo rigore dei francesi o degli italiani del periodo fascista, deve convenire che la misura è colma. Da una parte nessuno è tenuto a conoscere la lingua inglese, specialmente gli anziani, e dall’altra chi comunica dovrebbe fare uno sforzo di chiarezza. Come diceva Primo Levi, «scrivere in maniera semplice è cortesia», e la regola vale tanto più per chi rappresenta le istituzioni.
L’intera vicenda ha perfino aspetti ridicoli. «In molti casi usi e abusi di termini della mia lingua madre mi fanno sorridere: non vi è alcuna necessità di sostituire “recovery plan” a “piano di ripresa” o “droplet” a “gocciolina”» dice Jeffrey Earp dell’Istituto per le Tecnologie didattiche del Cnr a Genova. «La mia impressione è che talvolta gli italiani usino l’inglese più che altro mostrarsi colti o “moderni” o “internazionali”. Anziché puntare sull’aspetto decorativo del proprio eloquio, bisognerebbe comunicare con assoluta chiarezza, minimizzando il rischio di confusione».
Tra l’altro, a volere maneggiare una lingua che non si conosce bene, gli errori sono dietro l’angolo. Prendiamo il termine «navigator», che nell’interrogazione parlamentare al Senato della Repubblica numero 4-04578 si riferisce a coloro i quali «hanno il compito di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro». «Mi fa pensare a un automa o un pilota di un aereo o una nave, invece è usato al posto del nostro “career advisor”; negli Stati Uniti “navigator” è un neologismo, a conferma che l’intenzione di chi lo usa è apparire moderno» conclude Earp.
Oltre agli errori sul significato, ci sono quelli connessi alle storpiature delle parole: «attach» al posto di «attachment» per dire allegato, «remind» invece di «reminder» per dire promemoria, «replay» anziché «reply» per dire risposta, e così via. Meno giustificabili gli esperti tv post-Covid che affermano di aver «sottomesso» un articolo di ricerca. «To submit a paper» significa sottoporre un articolo ai revisori, non calpestarlo sotto i piedi.
Per finire con gli errori di pronuncia, dei quali il più emblematico è «stage», termine francese pronunciato «steig», all’inglese, per dire tirocinio. A proposito, in inglese si dice «internship», «stage» è il nome per palcoscenico o fase di sviluppo. Quanto al nostro «tirocinio», caduto in disuso, è il più intriso di umanità: viene dal greco tereo, ossia tutelo, prendo in cura, la stessa radice di terapia.
Ironia della sorte vuole che spesso le parole anglofone derivino dal latino. Il vocabolario formale dell’inglese risale in gran parte all’uso dei monaci nell’Alto Medioevo e all’influsso francese con l’occupazione dell’isola dei duchi di Normandia. Il verso di Virgilio «Tu regere imperio populos, Romane, memento!» (Tu romano, ricordati di regnare sopra i popoli nell’impero) chiarisce il concetto.
Da ogni suo termine deriva una parola anglofona: da «regere» le parole inglesi «regent, regiment, reign»; e dal suo participio «rectus» le parole «correct» e «direct»; da «imperio» le parole «empire e imperialist»; da «populos» le derivate «population e populist»; «roman» lo ritroviamo in «romance» e «memento» in «memory, memorize, remember».
Tore Janson, storico dei linguaggi, ha scritto che il latino e il greco hanno fornito agli inglesi i termini che designano concetti essenziali per descrivere e comprendere la realtà. Per una volta, almeno, non ci sarebbe niente di male a essere fieri del nostro passato e usare l’inglese con «misura». Dal latino «mensura». E da cui l’inglese «measure».
