Kramatorsk, Lysychansk, Sloviansk, tra macerie, esplosioni, scontri di trincea, civili in fuga… L’inviato di Panorama racconta vita e morte nella regione dell’Ucraina dove infuria il conflitto. Obiettivo: l’accesso cruciale al Sud del Paese.
Sfreccia sopra le teste il cacciabombardiere, con un rombo assordante. La sagoma scura e minacciosa, radente, per un attimo si vede bene dal cortile dei condomini popolari in stile sovietico, a Kramatorsk. È il benvenuto nel Donbass, il sanguinoso fronte dell’Ucraina, dove il conflitto è più duro che mai. La gigantesca colonna di fumo nero si avvista da lontano. E non è un buon segno che ci stiamo dirigendo proprio in quella direzione.
Il percorso è obbligato, lungo un budello mezzo sterrato e pieno di buche sotto il tiro dei russi. La strada per l’inferno che porta a Lysychansk, sotto pesante attacco e quasi stritolata dall’assedio. La città gemella di Severodonetsk è caduta dopo una feroce battaglia. L’unica «copertura» sono alberi e arbusti che servono ai carri armati ucraini per mimetizzarsi. Questa direttrice è percorsa solo da soldati dai volti tirati su blindati, camion o macchine civili di tutti i tipi, che corrono via nella speranza di non venire individuati dai droni. E coraggiosi volontari che portano viveri e medicine, come padre Oleh Ladnyuk, cappellano militare dei salesiani, che ha preso i voti in Italia. A lui non serve il giubbotto antiproiettile. Basta la croce di don Bosco appesa al collo. «Non tengo più il conto delle granate che mi sono scoppiate vicino. Sono protetto dalla fede» dice convinto, al volante di un furgoncino stipato di rifornimenti per gli assediati dell’ultima città della regione di Lugansk. Quando cadrà, i russi saranno padroni di metà del Donbass.
Lysychansk è una città morta: palazzi sfregiati, il supermercato in centro incenerito e carcasse di auto bruciate usate come sbarramenti. I pochi civili si affrettano con bottiglioni di plastica, in cerca d’acqua. I volontari distribuiscono viveri in una scuola. L’edificio è finito in cenere sotto i missili balistici. Natalia arriva in bicicletta perché la benzina è un miraggio. «Cerchiamo di aiutare gli anziani che non hanno la forza di uscire di casa. Pochi giorni fa abbiamo trovato una donna morta di fame. Non posso neanche pensare che stanno arrivando i russi» racconta, trattenendo le lacrime. I volontari scaricano gli aiuti di padre Oleh incuranti dei sibili delle granate. Una, due, tre si schiantano con il fragore metallico del piombo fuso che diventa una tempesta di schegge, a poche centinaia di metri, sollevando pennacchi di fumo.
Il cappellano militare raccoglie per strada quattro militari feriti. Uniformi lacere, volto annerito dalle esplosioni e bendaggi bendaggi alle meno peggio. Via di corsa quattro militari feriti. Uniformi lacere, volto annerito dalle esplosioni e bendaggi. Via di corsa dall’inferno con l’ultima immagine dei soldati che scavano trincee agli incroci principali per una disperata resistenza. All’ospedale di Kramatorsk, dove portiamo i feriti, entra solo padre Oleh. Esce pallidissimo: «Mio Dio è una macelleria. Gambe, braccia amputate, sangue dappertutto. Urla e ragazzi che stanno morendo».
Nel Donbass si incrociano i camion militari italiani con ancora le bandierine tricolore inviate dal governo Draghi. I filo russi hanno trovato nelle trincee espugnate le nostre casse di bombe da mortaio e sono arrivati anche i blindati Lince. Oltre ai pezzi di artiglieria FH70 con proiettili da 155 millimetri. Almeno due volontari italiani hanno combattuto nei ranghi della brigata internazionale a Bilohorivka, uno dei fronti più guerreggiati, sulle sponde del fiume Siversky Donets. Sulla trentina, sarebbero ex militari del nostro esercito.
La legione straniera contro i russi ha calamitato volontari di tutto il mondo, ma oltre un migliaio sarebbero tornati a casa impressionati dalla guerra convenzionale con armi pesanti e dal caos negli scontri. Sui social circola la testimonianza scritta da un americano che denuncia: «Ponti fatti saltare in aria con le forze ancora dall’altra parte, mancate comunicazioni fra unità, fuoco amico». Un cecchino che ha servito nei Sas, i corpi speciali britannici, stava prendendo posizione, ma «è stato evaporato da un blindato ucraino, perchè non erano informati» della sua missione.
David Arakhamia, uno dei principali consiglieri del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha parlato di mille uomini al giorno caduti o feriti. In realtà il bilancio sarebbe minore, sui 200 soldati, ma comunque impressionante. «Un numero esagerato per convincere gli europei a inviare più armi» spiega una fonte occidentale a Kiev. «Se perdessero veramente mille uomini al giorno nel Donbass non esisterebbe più l’esercito». Putin vuole conquistarlo entro l’estate. Uno degli obiettivi è Bakhmut, caposaldo ucraino all’imbocco della strada verso Lysychanks, che prima della guerra contava 73 mila abitanti. La città ora è spettrale e sembra che gli stessi palazzi, già colpiti, attendano il peggio.
Il comandante Fiodor, capelli grigi ma fisico da atleta, non fa una piega fra colpi di artiglieria in partenza e quelli dei russi in arrivo. Però si emoziona parlando di Larissa, la figlia che vive da 20 anni a Porto Recanati, nelle Marche. I suoi uomini stanno nelle trincee nascoste nella boscaglia. Unico segnale di riconoscimento un manichino impiccato a bordo strada, con baffetti e frangetta come Hitler. Al collo, un cartello con scritto «Putin», un epiteto che va di moda dall’inizio dell’invasione. Qualche chilometro più indietro, Olga piange davanti al suo condominio sfracellato a metà dalle granate e non ce la fa più: «Mostrate a Biden cosa accade in Donbass» grida. «Sotto queste macerie c’è ancora il corpo di una ragazza. Ucraina, Russia, a noi non interessa. Lasciateci solo vivere tranquilli».
I civili, ormai zombie, vivono nelle catacombe-cantine dei palazzi per salvarsi dalle bombe. Solo il 30 per cento della popolazione è rimasta in Donbass e una larga parte attende i russi come liberatori. «Quando portiamo i generi di prima necessità, casa per casa, c’è chi incolpa l’esercito ucraino di un’inutile e distruttiva resistenza. Sbagliano, ma per noi sono tutti disgraziati da aiutare» racconta un altro religioso salesiano. La linea del Piave degli ucraini corre fra Kramatorsk e Sloviansk, 54 chilometri da Bakhmut che vanno percorsi «a tavoletta» per evitare i colpi di artiglieria. Se passano i russi il Donbass è perduto. Gli invasori sono a una dozzina di chilometri. Kramatorsk è la base dei giornalisti. Al mattino, se vediamo qualche colonna di fumo che si alza da Sloviansk, si parte verso la città dove tutto è iniziato con i primi filo russi in armi nel 2014. Al posto di blocco tutti sono nervosi, ma ormai sono abituati ai reporter, come i vigili del fuoco che accorrono a spegnere l’incendio di una fabbrica colpita in pieno. Schegge e pezzi di razzi seminano il panico fra i civili. Una bambina di quattro anni descrive meglio degli adulti cosa sia successo: «Hanno bombardato casa mia. C’erano fiamme. Sono scappata quando è stato colpito il balcone. Vedi i vetri rotti?».
Per fermare l’avanzata su Sloviansk gli ucraini si sono trincerati con due linee di difesa a sud di Izyum la cittadina prima rasa al suolo e trasformata dai russi in un «hub» dell’avanzata. Davanti al remoto villaggio di Husarivka corre un dedalo di camminamenti, come nella Prima guerra mondiale, difeso con le unghie e con i denti dal 122simo battaglione. Il giovane tenente al comando ha il mito dei guerrieri indiani irochesi, che usa come nome di battaglia. Il tonfo intermittente dell’artiglieria è una continua cantilena di guerra, segnata dalle colonne di fumo nero che si alzano in direzione di Sloviansk. Lungo la strada sterrata sotto di noi due carri armati ucraini arrivano a gran velocità sollevando una nuvola di polvere per piazzarsi al riparo degli alberi, pronti a cannoneggiare i russi. I soldati usano di tutto per combattere: dalle moderne armi controcarro inviate dall’Occidente a una vetusta, ma sempre efficace, mitragliatrice sovietica del 1941.
Nelle trincee gli ucraini si sono inventati periscopi artigianali, ricavandoli dai tubi da idraulico, per non farsi centrare in testa da un cecchino. E poi c’è il cicalino, collegato a un filo invisibile ad altezza d’uomo. «Quando gli incursori russi si infiltrano di notte» dice Arthur, risoluto sergente con la bandana da pirata, «neanche si accorgono del filo teso, che fa suonare il cicalino, segnale di allarme». Il sibilo del colpo in arrivo fa scattare il tenente che urla: «Granata! Tutti qui sotto!». Ci tuffiamo in un rifugio scavato nel terreno. Pochi minuti dopo un nuovo allarme via radio: «Avion», caccia bombardiere in vista. Non resta altro da fare che tornare a tutta velocità nelle retrovie.
