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«Ammazzare gente è una passeggiata, la cosa difficile è fare il genitore»

«Ammazzare gente  
è una passeggiata, la cosa difficile 
è fare il genitore»

Una killer senza pietà, che quando torna a casa si trasforma nella madre preoccupata di una figlia adolescente. Drammi psicologici, sangue a volontà e adrenalina sono gli ingredienti del coreano Kill Booksoon, destinato a diventare il nuovo Kill Bill. Regista e protagonista lo raccontano a Panorama.


Molte donne e madri che lavorano lo sanno già: cosa c’è di più difficile che andare in ufficio tutto il giorno, dovendo incassare le rogne con il capo e i colleghi, e poi tornare a casa e trovare tua figlia che non ti rivolge la parola perché è in piena crisi adolescenziale?

Ancora peggio ti va se, anziché fare l’impiegata, sei un’assassina come la protagonista di Kill Booksoon, nuovo spettacolare film in arrivo dalla Corea il 31 marzo su Netflix, dopo essere stato presentato al Festival di Berlino: Gil Bookson (la star Jeon Do-yeon, già apprezzata in The Housemaid) ha scoperto precocemente di essere portata per l’omicidio quando ha incontrato il killer Cha Min-kyu (Sul Kyung-gu). Anziché ucciderla, l’uomo l’ha presa sotto la propria ala protettrice e fatta entrare nella società di killer a contratto, che dirige con la sorella Cha Min-herr (Esom).

Gil non ha mai sbagliato uno «show», come vengono chiamati gli omicidi su commissione, e questo l’ha resa la figura più celebrata nella rete di agenzie in cui si muovono gli assassini prezzolati. Ma da un po’ di tempo, quando torna a casa, spesso a tarda ora, la figlia, la teenager Jae-young (Kim Si-A) non le rivolge la parola, presa dai traumi della propria età. Quando un giorno la ragazzina pugnala con una forbice un compagno di scuola, rischiando di ucciderlo, la madre scioccata cerca di farle rivelare i motivi, temendo che anche lei abbia nel Dna l’istinto da killer, e tenta di tutto per abbandonare l’agenzia e il fidato Cha Min-kyu, che invece vorrebbe rinnovarle il contratto e le affida un ultimo incarico. Destinato a rivelarsi fatale per la loro relazione. «Ho osservato a lungo la carriera e la vita di Jeon Do-yeon, attrice che ho sempre ammirato moltissimo, e ho appreso da alcune interviste le sue difficoltà nel gestire la carriera insieme alla maternità» spiega il regista e sceneggiatore Sung-hyun Byun, tra i talenti emergenti in Corea del Sud e già autore dell’interessante Kingmaker, ispirato alla relazione tra l’ex presidente coreano Kim Dae-jung e il suo consulente politico. «Così non ho fatto altro che inventare una storia in cui la professione di attrice fosse sostituita con quella di assassina. Come vedrà il pubblico, uccidere non è la cosa peggiore che un essere umano può fare, e vorrei che gli spettatori si chiedessero alla fine se nella loro vita hanno qualcosa di cui vergognarsi agli occhi delle persone cui vogliono bene» continua.

«Non ho nessuna esperienza nel crescere un figlio e perciò, dopo che Jeon Do-yeon ha accettato la parte, le ho chiesto a se potevo andare a casa sua a studiare le interazioni con la figlia. Mi sono messo lì e le ho viste giocare insieme a carte e ai giochi di società, chiacchierare, ma anche in qualche caso litigare. Poi ho scritto la sceneggiatura ed è stata proprio lei ad aiutarmi a rendere i dialoghi più realistici, durante una sessione lunghissima in cui io le ponevo il tema di un dialogo-madre figlia e lei improvvisava delle battute». «Devo dire che mi sono immedesimata moltissimo» racconta l’attrice «perché anche se inizialmente avevo incontrato Sung-hyun Byun per proporgli di lavorare a una storia diversa, il suo approccio mi ha intrigato: crescere una figlia a volte ti terrorizza, non sai come fare, ti fa sentire insicura. Per questo Gil a un certo punto dice che assassinare le persone è molto più semplice».

Se da una parte la donna ha difficoltà a gestire gli stati emotivi della figlia, che vive i conflitti con i compagni di scuola ed è alla ricerca della propria identità e alla scoperta della vita amorosa, dall’altra le resta la gestione delle missioni, dove deve uccidere talvolta innocenti, ma spesso canaglie. Come nello spettacolare duello iniziale, in cui affronta un membro della yakuza armato di katana, che il regista Sung-hyun Byun risolve visivamente in maniera brillante, con effetto stroboscopico creato dal passaggio della metropolitana. «Non avevo mai diretto prima d’ora un film d’azione» ammette «ma quando li guardo da spettatore soffro sempre se una scena mi sembra già vista altrove. È pur vero che dopo tanti anni di storia del cinema è difficile inventare qualcosa di totalmente inedito, quindi mi sono detto che se ci dovevano essere somiglianze, almeno dovevo stravolgere la fonte d’ispirazione. Così con il responsabile delle arti marziali ho passato in rassegna un’infinità di action movie per trovare alcune idee da manipolare ad hoc. Per esempio penso di aver cambiato almeno otto volte la sequenza finale (in cui si sovrappongono nella scena vari possibili esiti del medesimo duello, ndr). E con lui abbiamo fatto varie prove sul set, sperimentando tante coreografie e inquadrature, per poi addestrare gli attori».

A fare le spese di uno stile molto realistico, se si eccettuano i fiotti di sangue digitale, è stata proprio la protagonista, finita in ospedale a causa di qualche colpo sfuggito di mano ai suoi colleghi: «Anche per me questo era il primo film d’azione» dice Jeon Do-yeon «e volevo realizzarlo al meglio, impegnandomi al massimo in prima persona. Siccome sapevo che tanti in patria avrebbero criticato il fatto di avermi scelto per questo ruolo, perché sono abituati a vedermi in altri generi, ce l’ho messa tutta e non mi sono arresa né quando una scena era troppo difficile né quando, purtroppo, mi sono fatta un po’ male». La grinta dimostrata nell’intervista si percepisce vedendo il film, che sembra una variazione della saga di John Wick, anche se il regista ammette di essersi ispirato, nella scrittura, solo a un personaggio: «Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino». Certamente la pellicola conferma il carattere ad alto tasso di intrattenimento e raffinatezza del movimento coreano: che tra la Palma d’oro e il Premio Oscar vinti dal filn Parasite, il successo globale della serie televisiva Squid game (di cui si attende sequel), e il glorioso omaggio hitchcockiano di Decision to Leave del regista di Old Boy, continua a mietere successi all’estero. Ed è anche l’unica cinematografia al mondo capace di battere i blockbuster americani al box office. «Questo successo planetario che rende il cinema coreano apprezzato in tutto il mondo» conclude il regista «è positivo per due motivi: da un lato apre le porte a nuovi talenti che possono mettere in mostra le proprie capacità, dall’altro alza il tasso di qualità richiesto per emergere. Per chi guarda i nostri film, due ottime notizie».

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