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Inseparabili rivali

Inseparabili rivali

Personaggi in eterna competizione, ma fatalmente dipendenti l’uno dall’altro. I grandi atleti devono avere un avversario al loro livello, per poter brillare. Un libro racconta queste «coppie» antagoniste.

«Sei sfortunato amico mio, ancora una volta arriverai secondo». Lo dice Jacques Anquetil, ormai morente, a Raymond Poulidor che è andato a trovarlo al capezzale. È l’ultimo sprint vinto. È la sublimazione ironica e amara di una vita trascorsa a battersi su una bicicletta, a inseguirsi, polemizzare, digrignare i denti sul manubrio. Dal Mont Ventoux alle cronometro crivellate dal vento di Bretagna, l’algido normanno e il contadino di Limoges hanno condotto lo sport dentro I duellanti di Joseph Conrad, lo hanno semplificato in favore di telecamera con un copione che sarebbe diventato un format: due protagonisti assoluti circondati da comparse destinate a svaporare nel tempo.

È il gioco delle coppie. Prima di loro Coppi, Bartali e la borraccia. Dopo, una letteratura infinita, raccontata con lo stile epico che si addice alle sfide a due. Lo scaffale della libreria è pieno ma c’è ancora spazio per Rivali – sottotitolo Sfide leggendarie che hanno cambiato lo sport – Einaudi editore, scritto dai giornalisti del sito di successo L’Ultimo Uomo, luogo raffinato, ammobiliato di pensiero, tecnica e intelligenza. Qui vincitori e sconfitti sono sullo stesso piano perché non conta il risultato ma lo scontro omerico, l’antagonismo perenne. Il bouquet è mondiale.

Ecco la collisione fra Muhammad Alì e Joe Frazier che hanno passato 41 riprese insieme sul ring a tirarsi cazzotti fino a sfinirsi, in una delle trilogie più famose e cruente della storia della boxe. La scelta è originale perché, per una volta, ha bypassato Kinshasa e quell’Alì-Foreman diventato icona pop, narrato in modo sublime (per chi volesse tuffarsi nella letteratura) da Norman Mailer in The Fight. Ecco il confronto a distanza, anzi il passaggio di testimone, fra Michael Jordan e Kobe Bryant; il duello a 300 all’ora fra Ayrton Senna e Alain Prost; l’inedito Usain Bolt-Justin Gatlin; il Maradona-Pelé più classico di un Magnum alle mandorle.

Inseparabili rivali
Nadia Comaneci e Nelli Kim (Ansa)
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Mark Spitz e Roland Matthes (Ansa, Bundesarchiv)
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Carlos Monzòn e Nino Benvenuti (Getty Images)
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Jacques Mayol (primo a sx) ed Enzo Maiorca (Ansa)

Le più originali dentro Rivali sono però tre, emozioni pure che restituiscono allo sport tutta l’umanità di cui ha bisogno per diventare immortale. La prima è la gara a chi scende più in profondità negli abissi marini fra Enzo Maiorca e Jacques Mayol, il bronzo siciliano di Siracusa e l’intellò francese nato a Shanghai. Due vite in apnea, alla ricerca del Grand Bleu (la loro storia è raccontata nel film di Luc Besson del 1988), due vite dedicate alla simbiosi con l’elemento liquido. Pura ecologia senza ecologismi. Diffidavano dei metodi e delle reali misure dell’altro, non si sopportavano, nel rapporto personale stavano messi peggio di Francesco Moser e Beppe Saronni. Dopo uno dei loro litigi piú furiosi, Maiorca puntualizzò con rammarico: «Pensavo di conoscerlo, ma non è cosí. Dalle nostre parti si dice: per conoscere un uomo bisogna mangiarci assieme una montagna di sale».

Il secondo duello riguarda due monumenti del tennis, Björn Borg e John McEnroe. Senza il rissoso e geniale americano, il gelido svedese (che da bambino si allenava tirando contro la saracinesca del garage come Snoopy e rompeva le racchette quando perdeva) non avrebbe mostrato al mondo limiti e umanità. Senza Björn, John sarebbe stato un viziato campione di passaggio. Il destino era incrociare gli sguardi e diventare complementari. Rilanciando un aneddoto contenuto nel libro di Mats Holm e Ulf Roosvald Game, set and match (add editore) sui grandi del tennis svedese, il libro Rivali narra come i due diventarono amici. «La seconda volta che si incontrano è a New Orleans e la partita è tesa. Sul cinque pari al terzo set McEnroe è in ebollizione, in aperto conflitto col mondo degli adulti e delle istituzioni. Borg va verso la rete e lo invita ad avvicinarsi. McEnroe ha paura: “Mi dirà che sono il piú grande idiota al mondo?”. Borg gli passa una mano sulla spalla e a bassa voce lo rassicura: “È tutto ok, è una bellissima partita, rilassati”. Sta cercando di manipolarlo, oppure, piú semplicemente, Borg è una brava persona? Per una volta Mac accetta la risposta piú facile, e per la prima volta nella vita si sente capito e accettato».

La terza pepita del libro è un duello fra scriccioli atomici, Nadia Comaneci e Nelli Kim. Luogo dello scontro un tappeto, una trave, due parallele, un cavallo con maniglie, due anelli sospesi; il tutto avvolto da una nuvola di talco. Ginnastica artistica, la ferocia gentile di due fenomeni che si trovano di fronte alle Olimpiadi di Montreal (1976), due opposte visioni del mondo: la voglia di Occidente della rumena, la cappa sovietica che avvolge la kazaka, padre coreano e madre tartara. La sfida è più di una gara, è la loro Guerra Fredda. A dividerle e a unirle è il risultato: il 10 perfetto che Comaneci ottiene sette volte e Kim due. Si legge nel libro: «Quando il tabellone si illumina, segna un 1.00. Seguono istanti di spaesamento, prima che diventi chiaro che il punteggio doveva indicare un 10 perfetto. Nadia ha superato non solo tutte le altre ginnaste in gara, e quelle di tutti i Giochi Olimpici precedenti, ma anche la tecnologia dei tabelloni luminosi. Prima di allora non era neanche stato preso in considerazione che potessero servire quattro cifre per comporre un punteggio… Un 10.00 non era possibile».

Fuori dal saggio ma dentro il mito brillano altre due rivalità individuali a sfondo geopolitico. Quella di Valery Borzov e Pietro Mennea nella velocità è romantica, spiegata bene dal campione russo: «Per noi lo sprint aveva il suono di un violino. Per vincere 100 e 200 bisogna saper usare bene tutte le corde». Quella nel nuoto fra il californiano Mark Spitz (sette ori a Monaco 1972) e il tedesco dell’Est Roland Matthes (due ori, un argento, due bronzi) invece è fredda, dominata dalla diffidenza, dalle ombre di Cia e Stasi. Uomini con i baffi e con il motore nei polmoni. Rubacuori e gaudenti ma divisi da un muro (di Berlino). Nessuno oltrecortina capì come Spitz potesse stracciare tutti a stile libero, nessuno negli Usa paradiso del nuoto seppe mai spiegare il «dorso alto» di Matthes, definito sughero perché galleggiava meglio di tutti.

Rivali e leggende, Niki Lauda e James Hunt sono dentro un film di culto come Rush. Eddy Merckx e Felice Gimondi sono simboli della rivalità positiva, non tossica. Quasi nemici li ha chiamati Dario Ceccarelli nel libro edito da Minerva e dedicato ai duelli che hanno infiammato la storia del ciclismo. Gli opposti si attraggono, ma la magia è nelle differenze e nell’impossibile sintonia. Ecco che Coppi e Bartali non si chiamavano mai per nome né per cognome; per Bartali, Coppi era semplicemente «l’altro».

Accade a Jerez de la Frontera nel 1997, ultimo gran premio di F1 decisivo per il titolo mondiale: Michael Schumacher e Jacques Villeneuve sono distaccati da un punto e il tedesco (che soffre la velocità del canadese) decide di buttarlo fuori pista. La manovra è goffa, nella sabbia ci finisce lui, deve ritirarsi e Villeneuve s’invola verso il trionfo. L’unico della sua carriera. Perché il destino ti aspetta e se deve decidere solo fra due, trova la scelta più facile. Lo racconta il pugile Nino Benvenuti, re dei pesi medi: un giorno si trova davanti un indio argentino. Si chiama Carlos Monzón, diventerà il suo incubo. «A un certo punto del match lo colpisco al volto con il pugno perfetto, micidiale, lo stesso che aveva spazzato via Emile Griffith. Lui ha la mascella di marmo, non fa una piega e mi sussurra all’orecchio: «Hijo de puta». In quel preciso istante capisco che è finita».

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