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C’eravamo tanto amati

C’eravamo tanto amati

L’ultimo sgambetto sul cda Rai ha reso molto tesi i rapporti tra Lega e Fratelli d’Italia. Già messi a dura prova dalle liti per la scelta dei candidati di Amministrative e Regionali. E così l’alleanza di centrodestra che ha toccato il 50 per cento dei consensi rischia di sfilacciarsi.


«Non saremo la stampella di nessuno». Lo disse nei giorni freddi di fine gennaio, Giorgia Meloni, quando il governo Conte 2 si sfasciava e lei si muoveva con le grucce per un fastidioso strappo muscolare al polpaccio «mentre provavo a fare sport». Ha la tentazione di ripeterlo con la consueta aria burbera nei giorni bollenti del solleone, questa volta agli alleati. A Matteo Salvini e a Silvio Berlusconi. Anzi scandirlo, urlarlo davanti ai sondaggi che volano (Fratelli d’Italia al 21 per cento), premiando la scelta di costituire l’unica opposizione all’esecutivo di Mario Draghi, fuori dalla grosse koalition al parmigiano che tiene insieme federalisti storici come Roberto Calderoli e comunisti malinconici come Roberto Speranza, burocrati dem come Andrea Orlando e sfasciacarrozze da diporto come Paola Taverna.

Dovrebbe essere rilassata e zen, invece la presidentessa è nervosa come chi in gita ha perso gli amici e la corriera. «Credo nel centrodestra, ma adesso voglio capire se ci credono anche gli altri», va ripetendo stereo con Daniela Santanchè, suo luogotenente nordico. Sono successe delle cose. Ha ottenuto il Copasir solo dopo una battaglia campale (la Lega non voleva lasciarlo ad Adolfo Urso). Ha perso un posto nel consiglio d’amministrazione Rai perché nessuno degli alleati voleva più vedere l’ondivago Giampaolo Rossi neppure dipinto sul muro. Ha sfilato a Forza Italia il colonnello Lucio Malan (20 anni con il Cavaliere, numero due della delegazione al Senato) con spirito di rivalsa. Ha rimesso in discussione la candidatura in Calabria e ha negoziato con puntiglio tutti i sindaci designati. Ha fatto capire di essere pronta ad abbracciare altri transfughi azzurri. Soprattutto ha tirato una riga con la polvere da sparo: «Sono saltate le regole, vanno fatte nuove valutazioni».

Lo scippo di Malan ha lasciato il segno e sta inducendo tutti a una riflessione. L’arrivo dell’ormai vice di Anna Maria Bernini è un colpo grosso. Piemontese, difensore della famiglia e delle tradizioni, in trincea in questi mesi contro il Ddl Zan (uno dei primi a coglierne gli aspetti liberticidi), ha attraversato il fiume. E le motivazioni rappresentano un campanello d’allarme per tutto il centrodestra. «Non potevo più sostenere questo governo. Di recente ho dato voto di dissenso o non voto, ma c’è troppo poco cambiamento rispetto al Conte 2 su una serie di temi, per esempio l’assegno unico per i figli che ha meno fondi del Reddito di cittadinanza. Con Fdi mi trovo più a mio agio anche in chiave europea». E pure questo è un punto di principio. Lui si riconosce nei Conservatori e Riformisti guidati proprio da Meloni. Nell’Europa della baronessa Ursula, dove i desideri vengono scambiati per diritti, il Ppe è percepito da molti come un bradipo al guinzaglio della volpe progressista.

L’alleanza è in crisi, titolo: «C’eravamo tanto amati». Nel centrodestra il terremoto Giorgia viene vissuto con differenti gradazioni di apprensione. Giancarlo Giorgetti fa il meteorologo: «Dopo la tempesta viene sempre il sereno». Salvini abbozza: «Mi rifiuto di pensare che una poltrona in Rai valga la coalizione. Il pluralismo sarà garantito, ci saranno compensazioni». E considera archiviato il piccolo braccio di ferro di aprile che già annunciava perturbazioni, quando lei voleva sfiduciare Speranza e lui – pur con valutazioni identiche sulla mediocrità del ministro del Covid – era più propenso ad appoggiare la commissione d’inchiesta voluta da Matteo Renzi.

Berlusconi è meno tranquillo e in privato ha sollevato di peso i suoi per lo sgarbo sulla Rai. Secondo il Cavaliere, che continua a essere il più raffinato interprete delle curve politiche italiane, il casus belli avrebbe dato alla Meloni un pretesto per rompere l’alleanza, o comunque per allontanarsi da Salvini e marcare (anche nei sondaggi) le differenze. Lo strappo rischia di avere due effetti negativi: lo sfilacciamento della coalizione, oggi a un clamoroso 50 per cento nelle preferenze di voto degli italiani secondo una rilevazione di Monitor Italia, e la perdita di coesione nella partita per il presidente della Repubblica. Il 3 agosto si apre il semestre bianco e per la prima volta da 30 anni il polo conservatore può provare a imporre un candidato (l’ultimo fu Francesco Cossiga) o evitare di subire l’ennesimo democristiano di sinistra con i baffi finti da super partes, tipo Dario Franceschini.

«C’eravamo tanto amati» perché alla fiducia si sta sostituendo la diffidenza. Lo ha detto Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d’Italia, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue: «Discutere su tutto è la logica dello scontro, ma così facciamo l’ennesimo favore ai nemici. In tanti godono nel vedere scavare dei solchi sempre più profondi nel centrodestra. Pd e Cinque stelle, ma questo è banale. Poi c’è una parte di Forza Italia, quella piddina, che non vuole più stare nel centrodestra. Si sta delineando chiaramente». C’è chi fa i nomi di Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Renato Brunetta ma loro hanno sempre smentito con decisione. Secondo Crosetto c’è tempo e modo per ricucire, ma «i leader devono sedersi attorno a un tavolo, è li che si risolvono le controversie. Se non succede, le ferite sono destinate a diventare sempre più difficili da curare».

In calendario non ci sono summit, negli ultimi mesi i leader si sono parlati poco di persona e molto sui giornali con effetti rivedibili. L’inclinazione alla melina ha creato imbarazzi dentro le squadre impegnate nelle elezioni amministrative: tre candidati bruciati a Milano (Roberto Rasia dal Polo, Gabriele Albertini, Oscar De Montigny), equivoci a Torino e a Napoli. La settimana scorsa stava per saltare anche Fabio Battistini, imprenditore cattolico designato per Bologna. Non ha retto il lungo surplace ed è sbottato: «Questo modo di fare è una vera e propria mancanza di rispetto per tutti i cittadini di Bologna e non solo per gli elettori di centrodestra. La città vale meno di uno scranno nel cda Rai? Non meritiamo questa offesa». Dopo il sacrosanto tuono è arrivata la conferma anche da Forza Italia, che fino all’ultimo aveva spinto per Andrea Cangini.

Al di là delle scaramucce di posizionamento fra due partiti governativi (Lega e Forza Italia) e il terzo all’opposizione (Fratelli d’Italia), i leader vedono passeggiare due elefanti nella stanza e non sanno come accompagnarli alla porta. Il primo è Mario Draghi. Berlusconi e Salvini sono pilastri della maggioranza e il leader della Lega si è già sbilanciato per il Quirinale: «Penso che l’Italia abbia trovato in lui una risorsa eccezionale, se a gennaio dovesse dirsi disponibile ad andare al Quirinale lo sosterrei». Pur coltivando fino all’ultimo il sogno personale di salire al Colle, in caso di una seconda opzione il Cavaliere sarebbe d’accordo. Fratelli d’Italia invece avrebbe più di un problema a votare mister Bce, al quale si oppone in parlamento. Anche in caso di un draghiano «no grazie», l’elefante è destinato a rimanere minaccioso fra i soprammobili. Meloni è convinta che gli alleati stiano preparando una manovra a lei contraria: proporre a Draghi la candidatura a leader del centrodestra alle prossime elezioni. Sarebbe la classica mossa del cavallo di renziana memoria, destinata a risolvere il dualismo per la leadership (oggi i numeri sono pari) e a sparigliare le carte. Al solo pensiero Meloni rischia la gastrite.

Il secondo elefante è la federazione, che piace a Berlusconi e Salvini ma che Fratelli d’Italia boccia dal primo minuto. Un no destinato ad avere una conseguenza positiva e negativa allo stesso tempo: il presidio in solitaria dell’ala destra dello schieramento, che tradotto in francese significa «lepenizzazione». Solitudine. Isolamento. La destra storica tornerebbe come d’incanto ai «meravigliosi e inutili milioni di voti in frigorifero» di Giorgio Almirante. Quando Crosetto dice «stanno cercando il modo di relegare Fdi fra gli impresentabili», vuole arrivare lì. I leader sanno che solo l’unione fa la forza e che «simul stabunt, simul cadent» in un panorama politico da giungla vietnamita nel quale l’hobby preferito del Pd – con i molti intellettuali, giornalisti, editori compiacenti – è quello di scegliersi la destra preferita (Enrico Letta bontà sua definisce «presentabile») per poterla battere.

L’appendice è certamente urticante con questo caldo, ma la colpa della crisi d’estate è anche del sistema di voto, il famigerato Rosatellum, una legge elettorale che costringe i partiti ad allearsi in anticipo con l’obiettivo di governare insieme e poi li obbliga al litigio per primeggiare nella quota proporzionale. Una trappola alla quale non sfuggirà neppure il centrosinistra nel momento in cui dovrà chiarire gli equilibri fra Pd e Movimento Cinque stelle, fra Letta e Conte. Il sistema prevede patti solidi e duraturi che in Italia non vanno mai di moda. A chi gli chiedeva un commento riguardo al pasticcio, il costituzionalista Sabino Cassese un giorno rispose: «La prova del budino sta nel mangiarlo».

Meglio non allontanarsi troppo e rimanere fermi con l’ombrello aperto sotto il temporale d’estate che sta scompigliando il centrodestra. Consapevoli che, come in tutte le crisi matrimoniali, la percentuale strumentale di stizza è preponderante. «Se avessimo voluto le poltrone saremmo entrati nel governo», sibila Ignazio La Russa per vestire di idealità il broncio istituzionale. Come dargli torto? Alla presentazione del candidato sindaco di Milano, Luca Bernardo, è riuscito a fare la guardia a un’iconica sedia vuota.

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