La cancelliera Merkel si trova di fronte alla sua scelta più difficile. In molti a Berlino pensano che potrebbe ricandidarsi. Ma in tal modo si rimangerebbe la promessa di chiudere con la politica.
Non è affatto escluso che il coronavirus finisca per concedere i tempi supplementari ad Angela Merkel. A Berlino, in molti credono che si candiderà alle politiche che si terranno nell’autunno dell’anno prossimo. Lo sostiene con particolare enfasi la Bild, il giornale popolare dell’editore Springer, la cui vedova è una delle migliori amiche di Merkel. Se così fosse, si rimangerebbe la promessa di chiudere con la politica.
Non possiamo sapere cosa abbia realmente in animo di fare la cancelliera. Di certo, però, vorrà mettere in sicurezza la propria eredità. Prima dell’emergenza coronavirus, il ciclo politico di Merkel si stava concludendo nel peggiore dei modi. Cresciuta all’ombra di Helmut Kohl, Angela Merkel aprì il proprio lunghissimo ciclo politico con un duplice parricidio. Come in tutte le mitologie, anche quello di Merkel ha un peccato originale. Ma il suo è addirittura duplice.
Merkel non si limitò a disfarsi cinicamente di Kohl, che l’aveva cresciuta e lanciata tra i cristiano democratici tedeschi. Fece di più. Di Kohl, Merkel non rimosse solo l’ingombrante presenza politica, relegata a una crudele damnatio memoriae. Ne seppellì anche gli ardori patriottici. Kohl, protagonista indiscusso della riunificazione delle due Germanie, aveva un forte afflato patriottico. Era convinto, in altre parole, che i lunghi decenni di separazione non potessero che trovare un premio nella ritrovata unità e nell’identità nazionale tedesca ricomposta a caro prezzo.
Figlia di un pastore luterano, cresciuta nella Germania Est, Merkel la pensava in maniera molto diversa da Kohl. La semplice idea di fare i conti con l’identità nazionale tedesca le metteva i brividi. Non è detto, poi, che avesse familiarità con le fulminanti battute di Giulio Andreotti («Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due»), ma sta di fatto che fin dall’inizio preferì coltivare Bruxelles piuttosto che Berlino. Per Merkel, il sovra-Stato europeo era una indispensabile architettura di potere in cui imbrigliare e diluire la Germania riunificata, salvo alcune «sacche di resistenza» concentrate nella Corte costituzionale e nella Bundesbank.
Anche il modello centrista perseguito tenacemente da Merkel si sposa in pieno con la volontà di annullamento dell’identità nazionale tedesca. La Cdu, partito conservatore-centrista, sotto la guida di Merkel si sposta sempre più verso il centro. L’accentramento, e la conseguente perdita di voti a destra, si traducono a loro volta nell’impossibilità di imbastire coalizioni di centrodestra e nella necessità di fare coppia con i socialdemocratici tedeschi.
È così che prende corpo la Grosse Koalition (GroKo), vero marchio di fabbrica del merkelismo. Lo schema viene ripetuto, con sigle diverse ma dinamiche pressoché identiche, anche a Bruxelles e Strasburgo, dove i popolari europei per anni formano un cartello con i socialisti. Per Merkel quelli della GroKo a Berlino e della Euro-GroKo a Bruxelles sono anni di potere enorme, inebriante.
Eppure proprio questo modello conteneva già il principio della sua fine. In Germania, le praterie lasciate vuote a destra sono state occupate in non piccola parte dalla Afd. Si tratta di un partito in grado di catalizzare lo scontento di chi fatica a distinguere la Cdu da un partito progressista e di chi, a Est, si rifiuta di accettare che i lunghi decenni di separazione delle due Germanie siano trascorsi invano.
Anche a sinistra le cose non vanno bene. I verdi sono pronti a papparsi l’elettorato dei socialdemocratici, e appaiono molto meno interessati di questi ultimi a una coabitazione politica con la Merkel. Quanto a Bruxelles, anche lì è girato il vento. A capo della Commissione siede sì una tedesca, Ursula von der Leyen, ma sarebbe sbagliato prenderla per un clone della Merkel. L’Europarlamento, poi, assomiglia più a un mercato dove le maggioranze si combinano e scompongono, secondo convenienza.
Nell’equazione strategica della Merkel, l’Italia è sempre rimasta un oggetto misterioso. Merkel ha sempre preferito tecnocrati (Mario Monti) o centristi (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte) al centrodestra (Silvio Berlusconi o Matteo Salvini), come se anche in Italia fosse riproponibile la sua ricetta. Ma la storia dell’Italia ha smesso da tempo di procedere parallela a quella tedesca. Si pensi all’unificazione tardiva delle due nazioni nella seconda metà del XIX secolo, come pure alla sconfitta nell’ultimo conflitto e alla disarticolazione delle rispettive identità nel Secondo dopoguerra.
Al netto delle notevoli differenze socio-culturali ed economiche, non sono pochi a coltivare l’idea che Berlino e Roma abbiano un comune destino. Tuttavia la simmetria tra Italia e Germania sconta un limite decisivo. Si tratta della scomparsa della Democrazia cristiana, che in Italia non esiste più come attore politico unitario da quasi tre decenni, mentre in Germania resta il principale protagonista della scena politica. In Germania la Dc c’è ancora, ma Merkel l’ha resa irriconoscibile. In Italia, invece, non c’è proprio più, e Giuseppe Conte non è Alcide De Gasperi.
