Era il 2023, e sul palco più osservato d’Italia, quello del teatro Ariston di Sanremo, una stola Dior urlava “Pensati libera”. Un’operazione di comunicazione chirurgica, un messaggio che sapeva di femminismo, couture e pop culture. In quel momento Chiara Ferragni aveva incarnato, forse per la prima volta senza mediazioni, il senso del suo essere imprenditrice e simbolo sociale: un’icona che non si limitava a vendere prodotti, ma dava voce a una narrazione più ampia.
Due anni dopo, lo scenario è ribaltato. L’occhio con le ciglia è sparito, sostituito da un logotipo minimal blu su giallo pallido. La nuova capsule, battezzata “Rivoluzione Romantica”, nasce come collaborazione con il progetto social omonimo e si presenta con felpe e t-shirt che recitano slogan come “World’s best sottona” o “Illusi da sempre, illusi per sempre”. Il salto non è solo estetico: è semantico. E racconta una metamorfosi che pare più un inciampo che una direzione.
Da Dior a Smemoranda
Se “Pensati libera” era manifesto politico, “sottona” è pagina di diario. C’è un che di adolescenziale in questa collezione, un ritorno ai tempi delle frasi scritte sui bordi degli zaini e sulle agende colorate. Un linguaggio che non conquista la Gen Z, già lontana dai luoghi comuni del cuore infranto, e non seduce i Millennial, che avevano applaudito l’operazione Sanremo perché vibrava di coerenza biografica. È un messaggio che resta sospeso, senza destinatario chiaro.
La sensazione è quella di una digressione da Smemoranda più che di una strategia: un colpo di testa ironico che non trova il pubblico giusto.
Rebranding a metà
Va detto: Ferragni non è mai stata solo estetica. È stata governance, fatturati, strategia. E i numeri oggi pesano come macigni. I ricavi del brand sono crollati dai 12 milioni del 2022 a poco più di 2 nel 2024. Le perdite si accumulano, le società collegate sono state ricapitalizzate con urgenza, il retail liquidato. Il processo per il “Pandoro-gate”, partito in questi giorni, aggiunge un livello ulteriore di fragilità reputazionale.
Eppure, il prezzo pop delle nuove felpe (99 euro) e delle t-shirt (49 euro) sembra il tentativo di democratizzare un brand nato come status symbol. Un’operazione necessaria, certo, ma che rischia di apparire come una toppa, non come una tela nuova.
Rivoluzione o diversivo?
Definirla “rivoluzione” è forse eccessivo. È piuttosto un diversivo: un’umanizzazione improvvisa, un tentativo di mostrarsi vulnerabile e autoironica. Una mossa che ha il pregio di far parlare, ma che manca di cornice culturale. Perché lo slogan funziona solo se inserito in una narrazione credibile. Altrimenti resta una felpa.
Il problema non è la scelta di ironizzare sulla fragilità. È il vuoto di storytelling che accompagna questa scelta. Ferragni sembra muoversi in un limbo: non più musa dell’empowerment, non ancora narratrice di sé.
Funzioni o no, l’importante è che se ne parli
E qui sta il punto: ha funzionato? Forse no, se il metro è la coerenza di brand o la capacità di intercettare davvero un pubblico. Ma se la misura è la conversazione, allora Chiara Ferragni ha fatto centro. La felpa “sottona” è entrata nel linguaggio comune, è diventata oggetto di meme, di ironia, di articoli (come questo). In un’epoca in cui l’attenzione è moneta, generare rumore vale quasi quanto generare ricavi.
La contraddizione è evidente: la “Rivoluzione Romantica” non rivoluziona il posizionamento, non restituisce l’icona femminista del “Pensati libera”, ma rimette Ferragni nel flusso del dibattito. E questo, nell’economia dell’influencer marketing, è già sopravvivenza. La domanda è se basterà a trasformare la visibilità in fiducia.
Dal claim al capitolo
Per chi segue Chiara Ferragni, la domanda resta: dove si posiziona oggi il brand? Se Sanremo aveva raccontato una donna che si fa simbolo, oggi sembra di assistere a una ragazza che si fa felpa. Ma la moda, soprattutto quando è comunicazione pura, non può fermarsi a un capo. Deve diventare capitolo.
La vera rivoluzione, per Ferragni, sarà ricucire l’arco che unisce “Pensati libera” a “sottona”: trovare un linguaggio che tenga insieme fragilità e potere, estetica e racconto, governance e pop culture. Altrimenti, la “Rivoluzione Romantica” resterà un esercizio di stile senza storia. E Chiara Ferragni non è mai stata solo stile.
Il privato che diventa cornice
Non è irrilevante, in questo quadro, che il rebranding arrivi mentre si chiude il capitolo Ferragnez. La separazione con Fedez non è più un sussurro ma una cronaca, e al suo posto nella vita di Chiara è entrato Giovanni Tronchetti Provera. L’intreccio con una delle famiglie più potenti d’Italia sposta ancora di più l’immagine dal terreno pop a quello della grande borghesia milanese. Il contrasto tra il tono adolescenziale della felpa e la cornice d’élite della nuova relazione alimenta il cortocircuito.
L’aula di tribunale come nuovo palcoscenico
Poi c’è la cronaca giudiziaria. Il 23 settembre a Milano è iniziato il processo: Chiara Ferragni, insieme a Fabio Maria Damato ed ex manager e a Francesco Cannillo di Cerealitalia, è imputata per truffa aggravata legata al pandoro Balocco e alle uova Dolci Preziosi. In aula si è presentata “nonna Adriana”, 76 anni, che aveva acquistato un pandoro convinta di fare beneficenza: ora chiede 500 euro di risarcimento. Due associazioni, Adicu e Casa del Consumatore, hanno chiesto di costituirsi parte civile.
Il giudice deciderà il 4 novembre se ammettere le parti, e si valuteranno anche riti alternativi. Intanto la Procura parla di profitti ingiusti per oltre due milioni di euro, mentre Ferragni ha già versato 3,4 milioni tra multa Antitrust e donazioni per tentare di chiudere la partita sul piano amministrativo.
È l’immagine più potente e insieme più fragile: la stessa imprenditrice che aveva scritto “Pensati libera” su un abito da sera ora è attesa in aula a Milano, mentre i suoi avvocati valutano patteggiamenti e risarcimenti.
