Un americano a Roma, non uno qualsiasi, non un turista piacione che trova ogni cosa esotica, ma un grande osservatore abituato a decifrare, con l’intelligenza dello sguardo, persone e situazioni, luoghi e momenti salienti. Un fotografo, anzi un grande fotografo come Albert Watson, scozzese di Edimburgo, classe 1942, cittadino di New York dagli anni Settanta. A questo gigante della fotografia, considerato uno dei più influenti dei nostri tempi, insieme a Irving Penn e Richard Avedon, autore di memorabili ritratti a Alfred Hitchcock, Steve Jobs, Kate Moss, è stato chiesto di realizzare un libro di immagini sulla Capitale da cui è nata una mostra, Roma Codex, a Palazzo Esposizioni (29 maggio-3 agosto), importante per imponenza estetica, sono circa 200 fotografie per lo più di grande formato, e per numero di personaggi coinvolti: da Paolo Sorrentino a Valeria Golino, dal cardinale Silvano Maria Tomasi al Gran maestro dell’Ordine di Malta, da Luca Zingaretti e Riccardo Scamarcio fino a persone incontrate in giro per l’Urbe, tra Cinecittà, atelier d’artista, luoghi circensi, laboratori di danza.
Un lavoro che le è costato due anni di permanenza romana
Sì, un soggiorno bellissimo, ma un progetto difficile. Io amo essere un fotografo e mi piace raccontare i luoghi, l’ho fatto anche con il Marocco, ma accettare questo incarico mi ha messo ansia, una sfida bella e complessa.
Perché?
Roma ha una storia oltraggiosa. Ho cominciatoa esplorare, a visitare le rovine, a conoscere gente e con il tempo mi sentivo nervoso perché il rischio di cadere nei luoghi comuni, nei cliché era molto alto. Ho cominciato a fare ricerca: ci sono molti coffe table book su Roma il mio preferito, quello che mi ha un po’ ispirato è stato Rome, un famoso lavoro che William Klein ha fatto nel 1958, mentre lavorava a un progetto con Federico Fellini (era aiuto regista per il film Le notti di Cabiria, ndr).
Cosa l’ha colpita di Rome?
Il fatto che Klein non abbia fotografato la città, gli edifici, i monumenti, ma solo gli abitanti di Roma. Quindi, teoricamente, il libro avrebbe dovuto intitolarsi Le persone di Roma. E così ho pensato, be’, devo davvero concentrarmi sui romani che trovo interessanti. Ma poi ho avuto un piccolo problema perché quando ho iniziato a fotografare mi sono reso conto che, a differenza del 1958 quando la gente non indossava solo magliette e jeans, ero di fronte a una montagna di t-shirt Calvin Klein, Ralph Lauren, di cappellini dei Yankees, scarpe da ginnastica Nike. E, a volte, sembrava che mi trovassi a New York.
Quindi ha trovato una globalizzazione poco interessante?
Sa, non è come fotografare una donna seduta sul retro di una Vespa con un maglione aderente, una grande cintura e una gonna molto ampia che si gonfia, o un’altra con una sciarpa e i bigodini nei capelli. Ma questo è guardare indietro nel tempo, la nostalgia è una cosa importante tuttavia dovevo trovare una strada altrenativa. E ho deciso che il lavoro poteva ruotare intorno a me a Roma.
Cioè la sua visione personale sulla città?
Esatto, il mio «Codice Roma», come il codice dei Maja o il Codice di Madrid di Leonardo da Vinci.
E siamo al titolo della sua mostra?
Giusto. Lo hanno scelto i committenti che inizialmente volevano un titolo in inglese, io invece lo preferivo in italiano e alla fine hanno scelto un termine latino che in origine si riferiva alle tavolette per scrivere e poi al libro. E mi è piaciuto molto. Codex è la mia dichiarazione su Roma.
Comunque alla fine ha fotografato attori, registi, ballerini, insomma i vip romani
Sì, ma non solo loro, sono andato in giro, per 34 giorni non ho fatto altro che riprese e, per esempio, a Cinecittà ho incontrato una donna meravigliosa che addestrava uccelli rapaci, aquile, falchi, gufi, e l’ho fotografata. Da lì sono andato alla ricerca della gente del circo, in città arrivano tante compagnie circensi e ho trovato soggetti interessanti, ne sono stato felice. Mi sono spinto a Ostia dove ho scoperto una piscina antica, non in termini archeologici, ma una vecchia piscina che aveva un’incredibile specie di trampolino brutalista. E, dopo tre mesi di attesa per il permesso ho fatto salire un giovane tuffatore in cima e lo scatto è stato magico. Anche indagare sul MAAM, l’edificio abbandonato che gli artisti hanno occupato, mi ha interessato.
E non le sarebbe piaciuto fotografare Papa Francesco?
Era in programma, ma poi si è ammalato, lo hanno portato in ospedale e alla fine è arrivato il nuovo pontefice.
Le piace Leone XIV?
So soltanto che è americano dell’Illinois. Nient’altro.
Dopo tutto questo girovagare, secondo lei in che cosa consiste la modernità di Roma?
Forse Milano dà l’idea di modernità come New York, mentre Roma assomiglia a Washington D.C., entrambe hanno il profumo del potere della politica. Che purtroppo adesso odora di vecchio. Tuttavia, Roma esprime la sua modernità nella capacità di far convivere l’antico e il nuovo, nell’energia della vita notturna e dei suoi ristoranti dove si decidono cose importanti.
Il suo preferito?
Il Girarrosto Fiorentino.