Trattativa Stato-mafia: Ingroia si indigna, ma…
Sul Fatto Quotidiano l’ex pm chiede al capo dello Stato di escludere Berlusconi dalle consultazioni e alla piazza di insorgere. Ecco perché ha torto
“Qualcuno fra un po' tornerà a parlare di "presunta trattativa", presunta innocente fino a sentenza definitiva. No, non siamo per nulla un Paese normale”. Si chiude nello sconforto la paradossale “lettera aperta” al capo dello Stato che l’ex pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia pubblica oggi sul Fatto Quotidiano.
In un testo denso di indignazione, Ingroia chiede a Sergio Mattarella di attivarsi perché, dopo la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’assise di Palermo, a suo dire non ne sarebbero derivate le debite conseguenze: e cioè proteste di piazza, commissioni d’inchiesta parlamentare, la cacciata di Silvio Berlusconi dal consesso politico…
“In qualsiasi Paese al mondo una sentenza come questa avrebbe provocato un terremoto politico-istituzionale” scrive Ingroia. E aggiunge: “Lo Stato, la politica, si sono già autoassolti, malgrado la condanna giudiziaria. Chi chiede verità e giustizia è un sovversivo e la sentenza di due settimane fa un incidente di percorso, da dimenticare”.
Ora, non si sa bene che cosa dovrebbe fare il povero Mattarella, già impegnato suo malgrado nelle inconcludenti consultazioni politiche per la formazione di un governo. Resta il fatto che Ingroia (da ex magistrato e giurista) dovrebbe sapere bene che “la Costituzione più bella del mondo”, come dalle sue parti politiche a ogni pie’ sospinto viene definita la nostra Carta fondamentale, garantisce lo status di presunto innocente a ogni imputato, fino a quando nei suoi confronti non sia stata pronunciata una condanna definitiva.
Ed esattamente questo sono i condannati del processo di primo grado sulla “presunta Trattativa tra Stato e mafia”: sono tutti innocenti fino a quando non arriverà un’improbabile condanna della Cassazione.
Quanto a Silvio Berlusconi, non soltanto non è stato minimamente coinvolto dalla sentenza palermitana sulla presunta Trattativa, ma il suo breve governo del 1994 dovrebbe semmai esserne considerato parte lesa, in quanto vittima del conclamato reato di minaccia a corpo politico dello Stato.
E le stesse le speculazioni (politiche) del successore di Ingroia, il pm Antonino Di Matteo, da questo punto di vista lasciano il tempo che trovano: Di Matteo sostiene che Berlusconi abbia aiutato i mafiosi attraverso il condannato Marcello Dell’Utri? Non solo non lo dice la sentenza di Palermo, ma non ce n’è alcuna prova nelle attività dell’esecutivo del 1994.
Al contrario, in un’altra aula di giustizia l’ex presidente della Camera Luciano Violante ha appena ricordato che se nel 1993 il governo di quel galantuomo di Carlo Azeglio Ciampi (e quindi non il successivo governo Berlusconi!) decise di non confermare il regime carcerario duro a 334 detenuti mafiosi, questo avvenne esclusivamente perché la Corte costituzionale, con la sentenza n° 349 del 28 luglio di quell’anno, aveva appena stabilito che certe durezze del famoso articolo 41 bis della legge sull’ordinamento carcerario travalicassero la nostra Costituzione.
E di quell’estate rovente restano anche le prove scritte che i carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Mori (oggi condannato) furono proprio tra i più inflessibili avversari della mancata conferma decisa dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso: è questo un altro punto oscuro, una contraddizione in termini contenuta nella condanna di Palermo, che per questo molto probabilmente sarà spazzata via dal giudizio d’appello.
Una piccola considerazione finale. Se dopo la condanna al processo sulla presunta Trattativa non è arrivato il sollevamento popolare tanto disperatamente agognato da Ingroia, forse una delle cause va ricercata nella smaccata politicizzazione dell’inchiesta e di alcuni tra i suoi più esposti inquirenti: proprio a partire da Ingroia, l’ex pm della Trattativa che a un certo punto ha mollato la toga e ha fondato uno (o due?) partiti di estrema sinistra. Sì, quella indebita politicizzazione ha certamente contribuito più di ogni altra cosa a sminuire la forza giudiziaria del procedimento. Ancor più, forse, della stessa inconsistenza delle accuse.