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Nordio si racconta: «Se servirà, sarò di nuovo Guardasigilli»

Nordio si racconta: «Se servirà, sarò di nuovo Guardasigilli»

La degenerazione della magistratura, di cui è stato testimone, e l’importanza della riforma che porta il suo nome. I giudizi netti su persone e personaggi. La posizione sul caso Garlasco. Il suo futuro «se Giorgia chiama». Incontro con il ministro della Giustizia Carlo Nordio

Scoccato mezzogiorno, da buon veneto praticante, Carlo Nordio decreta che è giunta l’ora dell’aperitivo. Vino e patatine per tutti. Il suo sterminato ufficio è tra i più sontuosi della capitale. Potere e salamelecchi, però, non l’hanno traviato. Appena può, il ministro della Giustizia torna beatamente nella sua Treviso, dove tutto ebbe inizio.

Perché è diventato magistrato?

«Appartengo a una famiglia di avvocati. Sono cresciuto tra libri e riviste di diritto, leggendo le arringhe celebri. Mi sono appassionato subito ai grandi processi. Ricordo ancora il delitto Fenaroli, alla fine degli anni Cinquanta. Io ero innocentista. Mio padre, no: “Prove schiaccianti. Sarà un un ergastolo secco”, diceva. E così andò». 

Quanti anni aveva?

«Quattordici».

E quando ha pensato di poter fare il ministro?

«Mai».

Difficile crederle.

«Giorgia Meloni mi chiese nel 2022 di candidarmi. Se avesse vinto le elezioni, spiegò, sarei stato il Guardasigilli. Istintivamente, risposi: “Domine, non sum dignus”».

Alla fine, accettò.

«Avrei avuto la possibilità di fare le riforme di cui scrivevo da trent’anni».

Poi, arrivò la telefonata.

«Stavo camminando in montagna, con il mio amico Panatta e le rispettive consorti. Quando chiamò Giorgia, rischiai di perdere l’equilibrio e finire in una scarpata».

L’attesa riforma è passata. Poteva riuscirci solo un ex magistrato?

«Ho visto la degenerazione correntizia con i miei occhi. E ne ho parlato con tantissimi colleghi che la pensano come me, anche se non hanno il coraggio di dirlo».

Perché?

«Se finisci davanti alla disciplinare del Csm, il tuo capo corrente si accorderà per salvarti. Se ambisci a un incarico direttivo, caldeggerà la tua nomina escludendo magistrati di valore».

Anche il futuro ministro fu vittima del sistema?

«Sono rimasto procuratore aggiunto perché non volevo muovermi da Venezia. Non ho mai chiesto trasferimenti, né promozioni. Sapevo però che, in qualsiasi momento, sarei potuto entrare nello studio legale di famiglia. Non è che sia stato un leone, ecco. Anche dal punto di vista retributivo, avrei avuto più soddisfazioni. Mio fratello aveva la Jaguar, io giravo con la Dyane».

Qualche suo vecchio collega approva la separazione delle carriere.

«Il più significativo è Antonio Di Pietro. Lo conosco da quando abbiamo fatto Mani Pulite. È sempre stato critico, persino con i dipietrini».

Sono favorevoli anche esimi giuristi, come Augusto Barbera.

«Non è solo un ex presidente della Corte costituzionale, ma appartiene pure a un diverso schieramento politico. Nel centrosinistra, nonostante le apparenze, sono favorevoli in tanti».

Chi?

«Non posso fare i nomi, ma lo giuro: molti colleghi mi esortano ad andare avanti, perché è una riforma giusta».

Cosa le dicono?

«Quello che dicono tutti: da trent’anni la politica viene condizionata dalla magistratura. Basta un avviso di garanzia, magari inventato, per distruggerti. L’esempio di Mastella è emblematico. Sedeva qui, dove adesso siedo io…».

Su un elegante divano di pelle, a pochi passi dalla scrivania di Togliatti.

«È stato indagato in un’inchiesta farlocca. Dopo le sue dimissioni, è caduto il governo. Sono seguite nuove elezioni. L’hanno assolto otto anni più tardi».

Piercamillo Davigo, idolo dei manettari, assicurava: «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti».

«Prima di venire condannato con sentenza passata in giudicato, diceva pure che voleva rivoltare l’Italia come un calzino e che noi magistrati eravamo la parte migliore del Paese. Una metafisica eccentrica».

Perché si accanirebbero sui politici?

«Per fanatismo: come Davigo, pensano che siano persone sospette per definizione. O per protagonismo».

Un’altra vecchia gloria di Mani pulite, Fabio De Pasquale, è stato condannato in appello: ha nascosto le prove nel processo Eni. Fa il pm, sempre a Milano.

«Che la sezione disciplinare del Csm non funzioni, è sotto gli occhi di tutti. Riserva a un magistrato i peggiori epiteti, poi magari lo trasferisce a far danni da un’altra parte. È demenziale».

Oppure, gli toglie qualche mese di anzianità.

«Peggio mi sento. Ma la vergogna più immonda resta quella del sistema Palamara, che è stato presidente dell’Anm e consigliere del Csm. Al telefono, diceva: “Salvini è innocente, ma va attaccato”. In un Paese democratico ci sarebbe stata una rivolta. Qui hanno insabbiato tutto. Neanche un imbecille può pensare che fossero coinvolti solo quei quattro poveretti che hanno costretto a dimettersi. Luca Palamara, intervistato da Minoli, ha detto che ci sono 60 mila chat con magistrati in servizio. Allora, escano i nomi. Finché non si farà luce, la disciplinare resterà sospetta».

Lo scandalo «Toghe sporche» ha contribuito alla perdita di credibilità della categoria?

«È stato il colpo ferale. La fiducia è ai minimi termini. Solo quest’anno abbiamo già speso 23 milioni per ripagare gli errori giudiziari».

Chi sbaglia, non paga?

«Quella del Csm è giustizia domestica. È il motivo per cui serve l’Alta corte prevista dalla riforma».

Tanti invocano la responsabilità civile.

«È un tranello verbale. Pm e giudici sono assicurati: non pagherebbero di tasca loro. L’inetto, l’incapace, l’accanito devono essere puniti nella carriera. Fino alla destituzione».

L’anno scorso sono stati segnalati 1.715 magistrati.

«Solo il due per cento viene poi colpito da sanzioni: peraltro estremamente blande, come la censura. Al momento della valutazione di professionalità, non hanno nessun effetto. Tizio viene promosso lo stesso».

Di Pietro spiega: «Le vere ragioni per cui l’Anm si oppone sono l’Alta corte e il sorteggio».

«Molto più della separazione delle carriere, visto che lo scambio di funzioni è limitatissimo. Il problema è avere un unico Csm: i pubblici ministeri danno i voti ai giudici, e viceversa».

Parodi, presidente dell’Anm, assicura: solo un togato può giudicare un togato.

«Viene omessa una perversione: il magistrato coinvolto è magari lo stesso che ha ricevuto la telefonata del giudicante, per avere il suo voto».

Ha chiesto le dimissioni del suo capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi, ancora sotto inchiesta per il caso Almasri.

«Credo che poi abbia ritrattato».

L’indagine è stata una rappresaglia?

«Separare la posizione del braccio destro del ministro da quella del ministro non è stato giuridicamente corretto. Hanno agito insieme».

Il Tribunale dei ministri ha archiviato il suo procedimento.

«Avrebbero dovuto chiedere, de plano, pure l’archiviazione per Bartolozzi. Non mi risulta sia accaduto. Anche questa è una singolarità. Probabilmente, ci sarà un conflitto di attribuzioni. Mi auguro che la Procura di Roma chiuda in fretta la vicenda».

Parodi non vuole sfidarla in tv.

«L’Anm cerca di evitare dibattiti politici. Ha proposto il professor Enrico Grosso, presidente del comitato per il No. Successivamente, mi confronterò con chiunque».

Anche con Nicola Gratteri, alfiere dei contrari?

«Lo spero: in televisione o dovunque sia. Sarebbe divertente».

Nel 2021 disse: «L’unica via d’uscita allo strapotere delle correnti è il sorteggio del Csm».

«Persino Renzi era allineatissimo. Nel suo caso, però, trovo il comportamento coerente con le leggi della politica».

Il procuratore di Napoli ha arruolato postumo Giovanni Falcone, attribuendogli una dichiarazione farlocca.

«Le opinioni favorevoli di Falcone sulla separazione delle carriere sono chiarissime e reiterate. Chiunque sostenga il contrario, è in malafede. Oppure, non ha letto le sue dichiarazioni».

Quale delle due?

«Gratteri è una persona molto istintiva. La sua emotività lo fa inciampare in qualche gaffe».

È opportuno che faccia le lezioni di mafia in tv?

«Se l’interlocutore è manifestamente adesivo alla tesi dell’intervistato, allora la cosa non funziona. Al suo posto, vedrei meglio Melillo: procuratore nazionale antimafia, quindi più qualificato. Mi domando perché non l’abbiano chiesto a lui».

La Cassazione s’è pronunciata sulla maxi inchiesta «Stige» di Gratteri: 100 assolti su 169 arresti.

«Senofane diceva che, se un triangolo potesse pensare, immaginerebbe Dio a forma di triangolo. Ognuno vede la realtà con i propri pregiudizi. Se una persona è convinta che in un territorio governi la mafia, è portato a fare indagini a strascico. Riconosco a Gratteri la buona fede, ma dovrebbe essere temperata dalla razionalità».

Dunque?

«Per trovare dieci mafiosi, non si possono coinvolgere duecento persone. Quello che è accaduto ai tempi di Tortora succede anche oggi. Bisogna mettersi nei panni di chi potrebbe avere la vita rovinata per sempre».

Qual è oggi il caso di malagiustizia più eclatante?

«Il delitto di Garlasco. Come si può condannare in Cassazione una persona che è già stata assolta in primo e secondo grado?».

Come?

«O i giudici precedenti erano irragionevoli, quindi andrebbero cacciati dalla magistratura, oppure c’è qualcosa che non funziona nel nostro sistema processuale».

L’ultima diatriba è sulla famiglia nel bosco.

«Trovo singolare che si possa arrivare a rimedi così estremi, quando per anni le anime belle ci hanno insegnato che bisogna ritornare allo stato di natura evocato da Rousseau».

Lei ha scritto l’introduzione di Crainquebille, il romanzo di Anatole France che narra di un verduraio stritolato dalla giustizia.

«Davanti al pubblico ministero, sono tutti poveri cristi».

Anche i ricchi e i potenti?

«Sono quelli che hanno di più da perdere».

Ne ricorda qualcuno?

«Una volta interrogai Salvatore Ligresti, il costruttore. Aveva il volto incartapecorito. Era ricchissimo, cinto da famosi avvocati, ma sembrava annichilito».

Ha indagato pure tanti politici. Come D’Alema, per le coop rosse.

«Dopo un anno e mezzo, ho chiesto l’archiviazione. Che il Partito comunista avesse preso soldi, era pacifico. Ma non c’era stata responsabilità personale».

Visto che ci hanno già provato nel 2022, sarà lei il candidato del centro destra al Quirinale?

«Credo che allora sia stato un ballon d’essai. Comunque, mi ha molto lusingato: sono arrivato secondo dopo Mattarella. Per il resto, trovo l’ipotesi fantasiosa».

Perché?

«Vista l’incertezza del futuro, soprattutto. Avrei un’età, nel 2027, che consiglierebbe di ritirarsi a vita privata. Ribadisco, con maggiore forza, quello che dissi a Giorgia quando mi chiese di fare il ministro: non ne sarei degno».

Eppure, siamo qui: in via Arenula, a Roma, nella sua pomposa stanza ministeriale.

«Non mi pongo il problema. A me interessa solo che la riforma della giustizia venga approvata con il referendum e sia recepita con la legge attuativa. Poi, andremo avanti con il resto».

Ovvero?

«Mi impegnerò per realizzare tutte le riforme consequenziali. A cominciare da quella del codice di procedura penale. Altrettanto fondamentale è intervenire sul codice penale, che reca la firma di Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III».

Ci riuscirà entro la fine della legislatura?

«Se non ci riuscissi, non abbandonerei certo il campo».

Si ricandida a fare il ministro della Giustizia?

«Dico solo che, se il centrodestra rivincesse le elezioni, resterà ancora molto da fare per portare a termine queste riforme, sia procedurali che sostanziali. E io sarò a disposizione della premier».

Il referendum non è l’ultima battaglia, quindi.

«Come disse Winston Churchill dopo la vittoria di El Alamein: non è l’inizio della fine, ma è la fine dell’inizio».

Rimane il suo statista prediletto.

«L’insegnamento di Churchill si riassume con un motto: “Never give in, never give up”. Più ti attaccano, più viene voglia di resistere e controbattere. Vale soprattutto in momenti come questi».

Il quotidiano La Verità ha rivelato che Francesco Saverio Garofani, consigliere giuridico del Quirinale, durante una cena privata ha parlato di uno scossone per far cadere la maggioranza.

«È un giudizio politico sul quale molti possono anche concordare: il governo è così solido che soltanto uno scossone può travolgerlo. Altra cosa, invece, è se avesse aggiunto l’aggettivo “auspicabile”. Parlare di un “auspicabile scossone” trasformerebbe quella frase in un giudizio di merito, che dovrebbe essere sottoposto a un’attenta valutazione critica».

Da parte di chi?

«Da parte di tutti».

L’ex pm Roberto Scarpinato, senatore dei 5 Stelle, dice invece che Ranucci, conduttore di Report, è stato pedinato su ordine del sottosegretario Fazzolari.

«Se ha delle informazioni, dovrebbe spiegare come sono state ottenute. Altrimenti diventa una fantasia riprovevole, ancor più grave perché detta in Parlamento».

Travaglio, beniamino degli ex grillini, la chiama «Carletto Mezzolitro».

«Travaglio è come un personaggio dei Masnadieri di Schiller: rumina compiaciuto tra i suoi stessi rifiuti».

In radio, a Un giorno da pecora, lei ha bevuto uno spritz alla sua salute.

«I puristi come me lo fanno solo con il Campari».

Confuta l’accusa?

«Sono legato alle tradizioni venete. Mi piace bere, mangiare e stare con gli amici».

Ogni fine settimana torna a Treviso.

«Cerco rifugio tra i libri francesi della mia biblioteca, ascoltando Beethoven e Bach».

Va ancora a cavallo?

«Ci andavo con mia moglie la domenica. Adesso comincio a fare fatica. Ogni tanto, allora, esco in bicicletta. E d’estate frequento il centro sportivo di Panatta».

Dopo la nuotata, ha rivelato, si concede un Negroni.

«Rovescio la prospettiva: faccio quaranta vasche per potermelo permettere».

È un gaudente?

«Sono un gentiluomo di provincia».

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