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Politica

Riforma dello Stato, Natalini: «L’obiettivo sono durata e stabilità dei governi»

Mentre si accende il dibattito politico sulle innovazioni istituzionali, tra presidenzialismo o premierato, Alessandro Natalini, politologo esperto in politiche pubbliche, evidenzia come «più che l’immediata riforma della Carta costituzionale occorrerebbe assicurare stabilità e continuità all’azione degli esecutivi»

La settimana politica in corso appare ricca di stimoli: la premier Giorgia Meloni ha fissato un ricco calendario per incontrare tutte le opposizioni ed avviare un serrato confronto sulle riforme istituzionali, perché l’obiettivo del governo è l’elezione diretta del capo dello Stato o di governo, una versione tutta italiana del presidenzialismo o del premierato. L’obiettivo politico, prima ancora che costituzionale, è poter contare su un governo il più stabile possibile, per durata e per tranquillità politica, capace di evitare scossoni e crisi di medio periodo, rei di mettere in discussione la durata dell’esecutivo stesso. Ecco perché la premier sta puntando molto sugli incontri con le diverse opposizioni, una serie di incontri ravvicinati per tastare il polso della politica italiana alla vigilia delle riforme istituzionali che il governo è intenzionato a portare a conclusione. E’ chiaro che Giorgia Meloni sta cercando di condividere il più possibile il percorso con i suoi oppositori, per saggiarne la volontà comune e responsabilizzarne la strategia, e in questa direzione va letto il primo “faccia a faccia” ufficiale con la sua principale competitor, la segretaria del Pd Elly Schlein. L’elezione diretta, del capo dello Stato o di quello di governo, rappresenta un vecchio pallino del centro-destra italiano sin dai tempi di Silvio Berlusconi, ma oggi la premier sa bene di dover mantenere un rapporto privilegiato con il Presidente della Repubblica Mattarella. Ecco perché appare, allo stato, più realizzabile il premierato…

Panorama.it, ha chiesto ad Alessandro Natalini, politologo esperto in politiche pubbliche, di evidenziare la priorità di questo tentativo di convergenza tra le forze politiche.

Professore, partiamo dal versante politico: il presidenzialismo (o il premierato), è uno dei cavalli di battaglia dell’ultima campagna elettorale del centro-destra…

«Il tema è stato uno di quelli dell’agenda elettorale, e ora si tratta di capire come mai stia venendo fuori dall’agenda politica proprio in questi giorni. Offrirei una doppia lettura: da un lato, il governo si trova di fronte ad un momento di difficoltà nel rapporto con il livello europeo per la definizione del PNRR e del tema delle politiche degli immigrati; dall’altro, trovandoci a valle del processo di occupazione dei vari posti di potere che conseguono -legittimamente- all’acquisizione della maggioranza da parte dei partiti del centro-destra, è possibile che questo tema sia stato sollevato per precostituire una sorta di “alibi politico” al fine di giustificare eventuali fallimenti di queste politiche di governo».

Ci perdoni: il tema delle riforme istituzionali riguarda, però, la possibilità di governare il nostro Stato!

«La difficoltà di governare, tipica del nostro ordinamento statale, deriva dall’assenza di condizioni stabili all’interno delle nostre istituzioni. Il tema è, evidentemente, storico, e il governo potrebbe risolverlo proprio affrontando alla radice il funzionamento del nostro sistema politico».

La governabilità passa anche attraverso i numeri…

«L’apertura verso le forze di centro presenti all’opposizione (Renzi e Calenda, per intenderci…) è un chiaro segnale delle necessità di ampliare la base del consenso parlamentare in vista di maggioranze qualificate necessarie a sostenere riforme ad ampio spettro».

Ma anche in vista dei nuovi appuntamenti elettorali all’orizzonte…

«Certo. Quest’apertura non la vedo come un modo per far passare le riforme ma solo per costituire rapporti da far valere, ad esempio, nel corso delle prossime elezioni europee del 2024, in cui le forze di destra sperano di allearsi con il centro per ribaltare la maggioranza che sostiene l’attuale Commissione europea».

La premier sta coinvolgendo le opposizioni, ma non sarà facile arrivare a soluzioni condivise, anche perché i numeri non sono scontati.

«I numeri hanno un loro peso specifico, come i tentativi di Berlusconi e Renzi insegnano: affrontare un referendum confermativo è sempre un’esperienza particolarmente divisiva all’interno del paese, e può rimandare ulteriormente temi importanti come quello della governabilità e della continuità dei nostri esecutivi. E’ evidente, a questo punto, che il superamento della cifra numerica dei fatidici 2/3 dei nostri parlamentari possa servire a trovare una soluzione condivisa non solo all’interno della maggioranza di governo, quanto nell’intero arco parlamentare».

In realtà sarebbe più corretto trovare una larghissima intesa politica per mettere mano alla Carta costituzionale…

«Non vedo altre strade. E’ ovvio che l’accordo debba essere cercato non per la riscrittura della nostra Costituzione -per la quale oggi non credo ci siano le condizioni- quanto per trovare una serie di accorgimenti che riescano ad assicurare una maggiore stabilità e continuità nell’azione dei governi, obiettivamente caratterizzati da transizioni sin troppo brevi. Occorre trovare soluzioni quanto meno comuni per assicurare quella stabilità governativa che da sempre rappresenta il classico “tallone d’Achille della nostra democrazia».

A proposito di numeri: il vice premier Antonio Tajani ha praticamente dichiarato che se l'opposizione dovesse mettersi di traverso, la maggioranza sarebbe pronta a marciare da sola verso l’obiettivo...

«Sarebbe una soluzione assolutamente negativa sia per la maggioranza che per lo stesso Paese che non vuole, oggi, il ripresentarsi di riforme a colpi di maggioranza: arriveremmo ad alzare oltremodo i toni all’interno del dibattito politico, ovvero ad intossicare un ambiente che di tutt’altro necessita. Invero abbiamo bisogno che i partiti dialoghino sulle politiche del lavoro, su quelle economiche, su quelle della sostenibilità ambientale: lo scontro distoglierebbe l’attenzione dai veri interessi in gioco, non creando le condizioni per quella stagione delle riforme ormai non più rimandabile».

Passiamo al piano costituzionale e politologico: il progetto originale era quello del presidenzialismo, con un presidente della Repubblica eletto ogni cinque anni e non sette, dai cittadini e non dai Grandi elettori, e che presiede il Consiglio dei ministri e che può revocare i ministri.

«Un progetto di questo genere, se attuabile, comporterebbe la completa riscrittura della nostra Costituzione: il tema dei contrappesi è, infatti, sin troppo importante all’interno di un sistema democratico da non poter essere trattato preliminarmente ad ogni sorta di riforma. Parlamento, regioni, comuni, Corte costituzionale andrebbero rivisti in radice. Questo genere di progetto, allo stato, appare ovviamente totalmente irrealizzabile, e forse anche contrastante con lo spirito della nostra stessa Carta costituzionale».

Sul tema gravano le preclusioni di sempre…

«Si riferisce al sistema presidenzialista, a quello semipresidenzialista, ma anche all’elezione diretta del premier, tutti in contrasto con la Costituzione senza i contrappesi di cui non si può fare meno».

Il presidenzialismo all’americana non è neanche sul tavolo degli incontri: molto più abbordabile è il semi-presidenzialismo, anche se alla fine tutti scommettono per il più agevole premierato…

«Probabilmente se c’è un terreno su cui iniziare a confrontarsi, come sta avvenendo in questi giorni, credo che questo sia quello del c.d. premierato, con cui indichiamo le varianti della forma di governo parlamentare caratterizzate da almeno due caratteristiche. Da un lato, l’indicazione del capo di governo da parte dell'elettorato e, dall’altro, il ruolo rafforzato dello stesso capo di governo rispetto al parlamento. In Italia se ne parla da trent’anni esatti: e poter contare, poi, su una figura di salvaguardia, neutrale, come quella del Presidente della Repubblica, appare indispensabile all’interno di una realtà politica frammentata e rissosa come la nostra, cui si aggiunge un elettorato ad alto livello di “volatilità”».

A proposito di premierato: come lo vede?

«Il premierato, con elezione diretta, per me porta ad una diminuzione immediata del ruolo del Presidente della Repubblica: per cui non credo che sia questa la versione da mettere al centro delle trattative. Al massimo il premier indicato. Ma se poi il governo va in crisi, ricordiamo che il Presidente della Repubblica deve poter valutare l’operato del premier stesso…».

Ritorna, insostituibile, la figura del Presidente della Repubblica…

«Assolutamente, perché consente di continuare a superare momenti di crisi e frizione istituzionale. Nell’insieme del nostro sistema costituzionale, non credo proprio che potremmo farne a meno. E così, l’unica soluzione sarebbe quella del premierato, del quale, alle nostre latitudini, siamo ancora alla ricerca della definizione di un preciso contorno costituzionale. La sua stessa nomenclatura appare ancora vaga: si va dalla circostanza che il premier venga eletto direttamente dal popolo a quella secondo cui il premier possa essere indicato da una maggioranza. E poi, si tratta di capire se il premierato possa assicurare, effettivamente, una continuativa capacità di governo, con l’introduzione della “sfiducia costruttiva”, o la possibilità di nominare o far decade i propri ministri».

Come spiegherebbe ai suoi studenti il senso di questo nuovo tentativo di riformare le istituzioni della nostra Repubblica?

«Partirei dall’analisi del problema, cioè dalla continuità dell’azione di governo necessaria per la complessità della nostra dimensione politica. Tecnicamente non si tratta soltanto di far governare chi ha vinto le elezioni: ricordiamo che la premier Meloni con il suo partito ha raccolto il 26% dei consensi sul 64% dei votanti, e si tratta, quindi, di far sì che le decisioni del governo vengano metabolizzate anche da chi non l’ha votata. Questo aspetto significa che la Premier dovrà incorporare la possibilità di tenere conto delle soluzioni prospettate anche da chi non l’ha scelta alla guida del governo».

La riflessione sul presente è imprescindibile dall’esperienza del passato…

«Quest’ultima mostra che a forme di accentramento di potere politico verificatesi nel passato, spesso fa specchio la decisione di non decidere. Cioè ad un accentramento del potere non è detto che segua necessariamente un aumento delle decisioni, perché nel momento in cui, ad esempio, si assumono decisioni con lo strumento del decreto legge, non corrisponde poi un’azione esecutiva immediata, spesso rimandata a tempi successivi, con grave nocumento per la ricaduta nei confronti degli stessi cittadini. L’accentramento dei poteri non equivale all’immediatezza delle decisioni, sfumatura che non è propria di un sistema di rappresentanza come il nostro».

Un aspetto che riguarda anche il governo Meloni?

«In effetti già adesso l’attuale esecutivo forza le decisioni del Parlamento ma poi rimanda le scelte spinose ad atti ulteriori che non adotta o adotta tardi. Si tratta di una semplice costatazione di ciò che accade…».

E così la stagione delle riforme, in Italia, sembra non aver mai fine…

«Spesso le riforme rappresentano le occasioni per poter prendere posizioni di comodo nei confronti dell’elettorato, altre volte rappresentano degli alibi politici per sfuggire all’incapacità di dettare e realizzare politiche che soddisfino l’elettorato per come promesso durante la campagna elettorale. In questi casi è evidente che la capacità di realizzare le riforme promesse rimanga piuttosto modesta, perché fin dall’inizio le forze politiche non avevano la reale intenzione di portare a conclusione le riforme, ma soltanto l’intenzione di manifestare una sorta di intenzione preliminare, e quindi di poter sventolare una certa bandiera, senza che poi i problemi istituzionali di fondo venissero corretti».

Siamo destinati a questo destino sospeso?

«In realtà le riforme appaiono, spesso, come un “diversivo”: lo stesso intento riformatorio sembra caratterizzato da una fisiologica debolezza, e per ciò stesso incapace di approdare a soluzione…».

*

Alessandro Natalini, romano, classe 1962, è professore ordinario di Scienza Politica nell’Università Lumsa di Roma presso cui presiede il corso di laurea magistrale in Politica, amministrazioni e innovazione e insegna Scienza Politica e politiche pubbliche e Politiche pubbliche e decisioni di policy. È stato componente della Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche – CIVIT che è stata denominata dal 2012 Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche – A.N.AC. (2011-2014): già membro del Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure presso la Presidenza del consiglio dei ministri (1999 – 2002), del Servizio di controllo interno del Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione (1997 – 2001) e dell’Unità per la semplificazione della Presidenza del Consiglio dei ministri (2006-2008 e 2019-2020), dal 2019 è co-direttore della Rivista Italiana di Politiche Pubbliche (Il Mulino). Ha di recente pubblicato Pubbliche amministrazioni. Tradizioni, paradigmi e percorsi di ricerca (Il Mulino 2022),

Panorama.it Egidio Lorito, 10/05/2023

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Egidio Lorito