mattarella quirinale
(Ansa)
Politica

Un presidente eletto dal popolo? Sì, ma a 3 condizioni

La recente elezione di Mattarella, con tutte le sue criticità, ha riportato al centro della scena politica il tema del Presidenzialismo

«La sinistra ha messo solo veti», «Mezz’Italia è sta con noi ma non è rappresentata», «Siamo maggioranza nel Paese ma non nel palazzo». Nella schiera degli argomenti di discussione postquirinalizia, alcuni dei quali malamente autoassolutori, è comparso anche l’antico mantra del presidenzialismo. «La politica ha dato un pessimo spettacolo», si dice, «è meglio che il capo dello Stato lo scelgano gli italiani».

Per come si sono messe le cose, questa storica - e sacrosanta - battaglia del centrodestra non ha molte chance di essere presa in considerazione dal Parlamento. Sicuro non da quello attuale, presumibilmente nemmeno da quello che verrà fuori dalle elezioni del 2023. È probabile che, prima di quella data, il sistema, per cristallizzare un’ammucchiata stile prima Repubblica sotto l’egida di Mario Draghi e Sergio Mattarella, cerchi di blindarsi con una legge elettorale proporzionale. Nondimeno, ammettiamo che, a un certo momento, si apra una finestra per una riforma costituzionale. I partiti si sono sentiti così tanto scottati dall’anomala congiuntura del doppio bis al Quirinale, da essere pronti a esplorare soluzioni alternative? Sarà dunque opportuno ritentare la svolta presidenzialista? Certo. Con tre caveat.

  • Il nuovo presidente della Consulta, Giuliano Amato e, come lui, Massimo Cacciari, hanno sostanzialmente ragione: non basta l’elezione diretta del presidente della Repubblica; se si sterza in quella direzione, poi bisogna riadattare l’intera architettura istituzionale. Innanzitutto, va scelto un modello: presidenzialismo all’americana o semipresidenzialismo alla francese? Non è una differenza trascurabile: ne va dei contrappesi al potere del capo dello Stato, ne va del ruolo del governo e del Parlamento. I problemi sono sormontabili, se si hanno le idee chiare; tuttavia, più si allarga il novero degli organismi coinvolti dalla prospettiva di cambiamento, più la posta in gioco si alza e diventa complicato costruire un consenso attorno alla riforma. È molto facile lanciare sui giornali seducenti messaggi democraticheggianti, power to the people, dopodiché bisogna declinare lo slogan in legge. Un compito in cui la destra non ha sempre brillato.
  • Se la politica è debole, l’elezione diretta del presidente non sarà la panacea. Non puoi nascondere i cocci dei partiti sotto il tappeto del capo dello Stato eletto. Ad esempio, in un contesto costruito sul modello statunitense, l’inquilino del Quirinale, al netto delle sue facoltà di veto, potrebbe rimanere impantanato nel Vietnam parlamentare quasi quanto lo è, nell’attuale configurazione, il governo. Con l’aggravante che, per la stabilità e la temperatura dell’opinione pubblica, comporterebbe la concentrazione di responsabilità oggettive sulla figura di un presidente passato dalle urne. Il quale, è bene ricordarlo, non sarebbe più il garante dell’unità nazionale, bensì il catalizzatore della fibrillante polarizzazione della nostra società. Cadrebbe il velo d’ipocrisia, che oggi avvolge le personalità partigiane ascese al Colle? Senza dubbio. Saremmo pronti a reggere l’onda d’urto? È un altro paio di maniche.
  • L’appello al popolo non va preso per una scorciatoia che consenta di sorvolare sulla radicale inadeguatezza della classe politica. Andrebbe definito, ad esempio, il processo in virtù del quale selezionare il candidato: si presenta una «rosa» e poi si fanno le primarie? Si decide nel chiuso delle segreterie di partito, azzuffandosi fino alla fine? I più scafati - o i lettori di Gaetano Mosca - sanno che ogni regime politico, democrazia inclusa, è oligarchico. La destra delle origini ne era consapevole e non era certo presidenzialista perché il presidenzialismo è più democratico. La democrazia serve, nella migliore delle ipotesi, ad accrescere la responsività di chi governa e a facilitare il ricambio delle classi dirigenti. Se queste ultime sono impelagate, non se la cavano chiedendo l’aiuto da casa.

Sì, il nostro Paese va salvato dalla deriva tecnocratica. Ma dalla democrazia addomesticata non si esce proponendo la democrazia plebiscitaria. Non sarebbe saggio. E non sarebbe nemmeno di destra.

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Alessandro Rico

(L'Aquila, 1991) Laureato in Filosofia alla Sapienza, PhD in Teoria Politica alla LUISS. Nel 2017 ha pubblicato con Historica il saggio "La fine della politica? Tecnocrazia, populismo, multiculturalismo". Cattolico, conservatore, nemico del politicamente corretto.

twitter @RicoAlessandro

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