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Perché Dalla Chiesa è stato dimenticato?

Il Generale di Carabinieri venne ucciso a Palermo 37 anni fa, abbandonato dallo Stato. E oggi la sua figura vive un inspiegabile oblio

Tre settembre 1982, in via Carini, a Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa venne inchiodato da una scarica di pallettoni di kalashnikov. Per tutti era «il generale dei carabinieri» anche se, da qualche mese, si era congedato per assumere l’incarico di prefetto in quell’angolo di Sicilia dove lo Stato - sembrava - aveva ceduto il passo alle bande dei mafiosi.

Già da allora, le cronache risultarono scrupolose fino al dettaglio.Gli orologi segnavano le 21,15; a sparare fu un fucile a pompa AK-47; l’auto della vittima era una A112 e lui viaggiava sul sedile di destra. Da subito, si sostenne che si trattava del «delitto più grave della storia della Repubblica». Ma trascorsa la prima ondata di emozione, accompagnata dalla consueta rissa (abbastanza indecorosa) per appropriarsi del morto e della sua fama, Carlo Alberto Dalla Chiesa è finito sepolto nella categoria dei dimenticati. Ingombrante memoria.

Niente a che vedere con le celebrazioni plurime e ripetute - ancorché meritate - che, puntualmente vengono dedicate a Falcone, Borsellino, Chinnici e, genericamente, ai «mortammazzati» della mafia.

Persino il ricordo pubblico dei familiari sembrerebbe ingombrante. Mentre i parenti di alcune vittime illustri rappresentano - giustamente - una testimonianza di legalità contro i poteri malavitosi, i Dalla Chiesa sono stati presto ricacciati nella privatezza dello loro rispettive professioni.

Eppure, al generale-prefetto non mancava niente per essere celebrato. Si poteva persino sostenere che aveva militato con gli antifascisti della prima ora. Nei giorni dell’armistizio dell’otto settembre 1943, prestava servizio nelle Marche. Collaborò con le bande partigiane al punto da finire nella lista nera dei nazisti. Prima che le SS potessero catturarlo, riuscì a fuggire e a entrare nella brigata «patrioti piceni». Alla fine della guerra, gli conferirono il «distintivo dei volontari della guerra di liberazione».

Le tradizioni di famiglia indossavano la divisa dei carabinieri. Generale il padre Romano e generale il fratello Romolo. Carlo Alberto Dalla Chiesa era un militare da capo a piedi ma, al rigore della divisa, aggiungeva l’intelligenza dell’intuito. I suoi metodi non piacevano a tutti (nemmeno all’interno dell’Arma). Non era un ufficiale di routine ma proprio quel suo badare al sodo gli consentì di ottenere risultati significativi. Quando c’era qualche grana da sbrogliare, in un modo o nell’altro, dovevano ricorrere a lui.

Nella lotta contro il terrorismo rosso, per esempio. Per anni, larghe particelle dello Stato si sforzarono di minimizzare la portata del fenomeno. Gli uomini che sparavano e uccidevano sarebbero stati parte di «sedicenti brigate rosse» o - ancor più inquietante - «compagni che sbagliano». Sembrò che la rivoluzione violenta fosse non solo legittima ma, addirittura, auspicata con il risultato che le due formazioni eversive in attività nel 1969 diventarono 91 nel 1977 e 269 nel 1979 quando «firmarono» 659 attentati.

Le Bierre che, nel progetto originario di Renato Curcio e Alberto Franceschini, si erano poste dei limiti nell’uso delle armi, alzarono il tiro con il dichiarare guerra allo Stato. L’evidenza di questo diverso atteggiamento determinò l’attentato nel corso del quale venne preso prigioniero Aldo Moro, destinato ad essere ucciso e abbandonato nella Renault rossa, a Roma, in via Caetani.

Chi poteva fermarli? Per affrontarli venne scelto Carlo Alberto Dalla Chiesa, autoritario, coraggioso, eccellente organizzatore, determinato fino ad apparire testardo, che si circondò di una squadretta di uomini opportunamente selezionati ai quali, per raggiungere lo scopo prefisso, dettò la regola fondamentale: «Per batterli, occorre entrare nella testa dei terroristi nel senso che da adesso dobbiamo pensare come loro».

Ci vollero anche migliaia ore di lavoro, intuizioni geniali e un briciolo di fortuna. Non sempre gli organi di stampa e l’opinione pubblica si resero conto immediatamente dell’importanza di certe catture tanto che metà dei dirigenti delle Brigate Rosse finì in carcere senza che le autorità ne avessero esatta consapevolezza.

Dalla Chiesa inventò la figura del «pentito» e, promettendo sconti di pena al limite dell’impunità, convinse Patrizio Peci, uno dei colonnelli dell’esercito rivoluzionario, a saltare il fosso e a collaborare con gli inquirenti. Con quello, fu scacco matto.

Ovvio che, immaginando un personaggio capace di limitare il potere mafioso che stava dilagando, pensassero a lui. Fu l’allora ministro degli interni Virginio Rognoni a proporgli l’incarico di prefetto con sede a Palermo. Dalla Chiesa accettò solo quando gli assicurarono che sarebbe stato dotato di speciali poteri.

Inevitabile il rimando a un altro prefetto «di ferro», Cesare Mori, che una cinquantina d’anni prima, era stato inviato a Palermo con uguale proposito e identiche intenzioni.

Carlo Alberto Dalla Chiesa era rimasto vedovo di Dora Fabbo, madre dei suoi tre figli e, quasi in concomitanza con il suo trasferimento a Palermo, si risposò con Emanuela Setti Carraro, una ragazza di 32 anni della buona borghesia milanese, infermiera, una trentina d’anni più giovane di lui.

Una volta in Sicilia, Dalla Chiesa dovette prendere atto che i vertici dello Stato non stavano mantenendo alcuna promessa e, di fatto, dal momento della nomina (6 aprile 1982) lo lasciarono solo. Si lamentò: «mi hanno mandato a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì».

Eppure, con il niente che aveva a disposizione, riuscì a impensierire i mafiosi. Collaborando con polizia e carabinieri, riuscì a mettere insieme un documento (passato alle cronache come «il dossier dei 162») nel quale indicava le «famiglie» malavitose della città. Si mosse con la consueta disinvoltura, senza guardare in faccia nessuno e senza badare alle «sensibilità» che andava toccando.

Quando, per esempio, dichiarò che «la mafia è forte a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo». Azzardò che «con l’evidente consenso della “cupola” palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi lavorano a Palermo». Domandò: «Potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».

Se ne risentirono i cavalieri del lavoro Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Geraci e Francesco Finocchiaro titolari, per l’appunto, di imprese di costruzione e l’allora presidente della regione Mario D’Acquisto si sentì in dovere di chiedere una «specificazione» per quelle dichiarazioni.

Dalla Chiesa aveva agitato troppo le acque. A fine agosto, una telefonata anonima ai carabinieri (fatta probabilmente dal boss Filippo Marchese) avvertì che «l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa».

Quando il 5 settembre, una seconda telefonata, al giornale La Sicilia, sentenziò «l’operazione Carlo Alberto è conclusa», il generale-prefetto era già stato sepolto.

Al funerale una folla immensa digrignò i denti nei confronti dei politici e applaudì soltanto il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Un attentato di quella portata poteva essere decretato unicamente dal plenum dei vertici mafiosi. Per l’omicidio Dalla Chiesa, come mandanti, furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.

Ma per il resto, come rileva la motivazione della sentenza, «persistono ampie zona d’ombra».

Dalle carte processuali, sembrerebbe che gli autori materiali del delitto siano stati Pino Greco e Antonino Madonia. Calogero Ganci sarebbe stato al volante della Bmw usata per l’agguato.

Ma, periodicamente, spunta un pentito che mette in discussione le ricostruzioni dei magistrati. Un certo Simone Canale, per esempio, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli (prima), pentito (poi) e ritenuto inaffidabile (infine), rivelò che Nicola Alvaro «’u zoppu» era presente all’omicidio.

I fascicoli processuali non possono che dare conto di come «le carte che riguardano il generale Dalla Chiesa rappresentano la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste e manipolate». Occorre altro per sostenere che il ricordo è faticoso? E che è meglio dimenticare?

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Lorenzo Del Boca