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I campioni delle Paralimpiadi, super-atleti soprattutto nella testa

Uno dei mental coach della Nazionale spiega i segreti dei successi azzurri alle Paralimpiadi di Tokyo appena concluse

Ieri si sono concluse le Paralimpiadi di Tokyo 2020. Un'edizione trionfale per l'Italia con gli azzurri che hanno portato a casa un medagliere da record: 14 ori, 29 argenti e 26 bronzi conquistate in 11 discipline differenti. Ma che tipo di personalità c'è dietro un atleta paralimpico?

«La personalità di questi atleti è sicuramente particolare, rafforzata dall'aver già elaborato un lutto, una perdita ed è quindi una personalità resiliente già di suo» ci spiega Luca de Rose psicologo dello sport e psicoterapeuta mental coach alle Olimpiadi di Tokyo 2020.

Cosa può dirci delle caratteristiche mentali di questi super atleti?

«Esistono vari tipi di forza, una delle più importanti secondo me è la forza mentale quella che entra in gioco quando la "benzina" del corpo finisce, quando il fisico ti abbandona. Quando praticamente l'unico modo per vincere é ricorrere alla testa. Gli atleti e le atlete paralimpici hanno già vissuto indirettamente questo tipo di esperienza, ovvero hanno già vissuto l'esperienza dell'abbandono del loro fisico o di parte di esso. Vivere il trauma della perdita di un arto é come elaborare un lutto, che può essere superato solo grazie alla forza mentale».

Di che tipo di forza mentale parliamo?

«La forza mentale degli atleti olimpici è strutturata su parametri diversi. Un atleta paralimpico ha ben chiaro davanti a sé qual è il proprio obiettivo e per raggiungerlo è disposto a sacrificare anche parte di se stesso (letteralmente) quindi la sua sarà una forza completa ma mancante di una certa "razionalità frenante" che nei normodotati a volte non sempre riesce a dargli quella spinta in più. Spesso infatti gli atleti normodotati quando compiono sforzi sovrumani si scontrano con la loro razionalità che gli chiede chi o cosa glielo fa fare e con il loro senso del limite. Questo negli atleti paralimpici manca il che da un lato è un bene ma dall'altro deve essere controllato e gestito dal coach o dallo psicologo dello Sport».

Qual è il loro punto di forza?

«La forza di questi ragazzi e di queste ragazze ha però un'altra "scintilla", quella del riscatto, in questi casi infatti lo sport è una riconferma sociale per molti di loro, ciò fa si che la loro forza e la loro spinta motivazionale sia molto più forte di quella dei normodotati».

Che tipo di personalità c'è dietro questi atleti?

«Bisogna fare un passo indietro e parlare prima della personalità che c'è dietro gli atleti normodotati; questa non è una personalità "sana" non fraintendetemi ma per ripetere più volte lo stesso gesto tecnico aspettandosi un fine differente (che poi è il principio del miglioramento) e per lavorare ore ed ore, giornate intere fino a sfibrare il proprio corpo, bisogna essere un po' folli. Questa follia va gestita dal coach e dallo psicologo dello sport ma è in realtà la forza che consente ad ogni atleta di andare oltre il proprio limite e di testarli giornalmente. La personalità degli atleti paralimpici è sicuramente un tipo di personalità che ha elaborato un lutto, una perdita ed è quindi una personalità resiliente già di suo. A questo bisogna associare la sfida sportiva e le sfide che lo sport ogni giorno ti mette davanti».

Come si colloca nel contesto sociale?

«La personalità degli atleti olimpici viene sicuramente anche plasmata dal contesto sociale in cui si trovano. Lo sport oltre a diventare un riscatto, diventa anche un'arma di affermazione sociale "una droga" della quale hanno bisogno per sentirsi vivi. Come lo è del resto per ogni sportivo e atleta. Spesso un atleta paraolimpico diventa ancora più perfezionista per riuscire al meglio a svolgere il gesto tecnico, In ogni caso la loro è sicuramente una personalità che in psicologia viene definita di tipo E + R emotivo-razionale ovvero hanno dovuto controllare la forte emotività e la forte spinta emotiva, con una razionalità d'acciaio che gli ha permesso di andare avanti».

Come si forma un atleta delle paralimpiadi?

«Dal punto di vista mentale bisogna innanzitutto iniziare a lavorare sulla persona e sull'accettazione di perdita e elaborazione del lutto. Dell'arto amputato ad esempio, oppure del senso mancante come ad esempio la vista o l'udito. Tuttavia la formazione e la preparazione mentale di un atleta paralimpico è diversa rispetto a quella di un atleta normodotato. Non si lavora infatti sulle mancanze, sui difetti, su quello che non c'è per riuscire a colmarlo o a riempirlo (come ad esempio molti tecnici fanno dal punto di vista tecnico tattico per gli atleti olimpici) ma si lavora su ciò che è presente; per intenderci non è un recipiente da riempire ma una scintilla da far diventare incendio».

Ognuno di loro è allenato per vincere che tipo di spinta emotiva serve per arrivare al podio?

«Io dico sempre alle mie atlete una cosa: "la vittoria o la sconfitta non sono importanti". Certo se vincono sono contento, se perdono mi dispiace molto e penso sia lo stesso per loro ma ciò che è veramente importante e riuscire a finire la gara o l'allenamento sentendosi realizzati sentendo di aver dato il 100% in quel giorno che può anche non essere il massimo in assoluto nella carriera di un atleta. Ad esempio ci saranno giorni in cui l'atleta potrà dare il 100% e giorni in cui potrà dare il 20% ma l'importante è uscire dal contesto sportivo sentendosi realizzati, capendo di aver realizzato se stesse di aver trovato la propria strada e di percorrerla con consapevolezza. Un atleta paralimpico a questo deve aggiungere anche la rabbia che se gestita e tramutata in aggressività penso sia il motore giusto di ogni competizione».

La rabbia è una spinta per questi atleti?

«La rabbia è quella che ci spinge è quella che ci fa partire è quella che nel momento più difficile ci dà la benzina per continuare questa va gestita va contenuta e tramutata in aggressività agonistica. Un atleta paralimpico deve averne di più».

Sono più forti emotivamente rispetto agli altri atleti?

«Non so se siano più forti mentalmente degli atleti normodotati. Sicuramente hanno più esperienza di vita rispetto a loro. Io credo che in ognuno di noi al di là del lavoro che fa o dello sport che pratica e a che livello lo pratica l'esperienza di vita, le cose brutte che sei costretto a vedere, ti riempiono gli occhi; e se sai gestirle ti danno la forza per andare avanti. Il ricordo di queste brutte esperienze ti fa capire che persona sei riuscito ad essere, che atleta sei riuscito a diventare, superando ogni sfida che la vita ti ha messo davanti, magari non vincendole tutte ma avendo comunque il coraggio di rimanere fermo davanti alla tempesta affrontandola».

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Linda Di Benedetto