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Sydney, strage di Hanukkah: l’ISIS non rivendica e rincorre l’attacco

Sydney, strage di Hanukkah: l’ISIS non rivendica e rincorre l’attacco

Lo Stato islamico elogia l’attacco senza assumerne la paternità: una rincorsa comunicativa che non è prova di forza, mentre la minaccia resta viva tra Siria, Iraq, Africa e Sud Est asiatico.

La polizia australiana ha chiarito che i sette uomini arrestati giovedì nella zona sud-occidentale di Sydney non risultano direttamente collegati ai due terroristi che domenica scorsa hanno aperto il fuoco contro la folla riunita per celebrare l’Hanukkah a Bondi Beach, causando la morte di 15 persone. Gli inquirenti parlano, al massimo, di una possibile affinità ideologica. «Non abbiamo collegamenti definitivi tra gli individui coinvolti nell’attacco di domenica e quelli arrestati ieri, se non una possibile comunanza di idee. Al momento non esistono associazioni operative», ha dichiarato ad ABC Radio il vice commissario della polizia del Nuovo Galles del Sud, Dave Hudson. Le indagini, ha aggiunto, sono ancora in una fase iniziale, anche se uno dei luoghi che il gruppo arrestato avrebbe avuto intenzione di visitare era proprio Bondi Beach.

Le autorità australiane ritengono che il massacro avvenuto durante la celebrazione ebraica sia stato ispirato ideologicamente dallo Stato islamico. Tuttavia, un punto resta fermo: l’ISIS non ha rivendicato l’attacco. Ieri, l’organizzazione jihadista si è limitata a elogiare l’azione, senza mai assumerne la paternità. Un dettaglio tutt’altro che marginale. A chiarire la strategia comunicativa del gruppo è l’editoriale pubblicato nell’ultima edizione della newsletter ufficiale al-Naba. Il testo dedica ampio spazio all’attacco di Sydney, ma lo fa in modo indiretto, affiancandolo a una nota finale sull’episodio di Palmira, in cui un sostenitore dello Stato islamico ha ucciso tre cittadini americani. Nessuna rivendicazione, nessuna prova di coordinamento: solo un tentativo di inserirsi nel racconto di fatti compiuti da altri.L’editoriale lamenta la “condanna diffusa” dell’attacco e critica l’elogio pubblico del musulmano di origine siriana che ha rischiato la vita per fermare l’aggressione, sostenendo che ciò dimostrerebbe come la maggioranza del mondo musulmano e non musulmano rifiuti la “vera causa” del jihad. Una narrazione difensiva, che ammette implicitamente l’isolamento del gruppo e il fallimento della sua capacità di mobilitare le masse.

Non a caso, al-Nabariconosce apertamente che lo Stato islamico non è un movimento di massa, ma una realtà affidata a una presunta “avanguardia”. Da qui l’insistenza sull’idea che, anche se il gruppo viene colpito militarmente, singoli individui possano continuare ad agire in modo autonomo, radicalizzandosi online e scegliendo da soli obiettivi e tempi. Lo stesso editoriale lascia intendere che gli autori dell’attacco di Sydney hanno agito in maniera indipendente, senza direttive operative né ordini diretti. In questo quadro, il riferimento all’attacco australiano appare più come un’operazione di recupero simbolico che come una dimostrazione di forza. L’ISIS sembra inseguire eventi già accaduti per restare rilevante nel dibattito jihadista globale, non guidarli. Un copione già visto: quando non può rivendicare, il gruppo commenta, elogia, incornicia ideologicamente. Ma la mancanza di una rivendicazione formale resta un segnale chiaro dei suoi limiti attuali. L’editoriale si chiude infine con un appello ai musulmani in Europa, in particolare ai rifugiati in Belgio, affinché sfruttino il periodo delle festività natalizie per colpire cristiani ed ebrei, e con un attacco al nuovo governo siriano, accusato di collaborare con gli Stati Uniti contro il jihadismo. Anche qui, più propaganda che potenza reale. Il messaggio che emerge è netto: lo Stato islamico non ha diretto l’attacco di Sydney e non ne ha il controllo. Il suo intervento successivo non rafforza l’organizzazione sul piano propagandistico, ma ne fotografa la fase attuale: quella di un gruppo che talvolta è costretto a rincorrere la violenza altrui per restare visibile nello spazio mediatico jihadista. Questo, tuttavia, non equivale a una perdita di pericolosità. Al contrario, lo Stato islamico può ancora contare su migliaia di combattenti, reti clandestine e cellule dormienti pronte ad attivarsi quando le condizioni operative lo consentono. La minaccia resta concreta soprattutto in Siria e in Iraq, dove il gruppo mantiene capacità militari, strutture di comando e una presenza territoriale diffusa nelle aree meno controllate. Allo stesso modo, l’Africa rimane oggi uno dei principali teatri di espansione jihadista, dal Sahel al bacino del Lago Ciad, fino alla Somalia e al Mozambico, dove le filiali dello Stato islamico continuano a colpire forze di sicurezza e civili.La rincorsa propagandistica a eventi non direttamente controllati non è quindi un segnale di irrilevanza, ma l’indicatore di una strategia adattiva: meno rivendicazioni formali, più ispirazione ideologica. Una mutazione che rende il gruppo meno visibile, ma non meno letale.

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