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Mammografia, salva davvero la vita o la complica?

In certi casi i rischi ed i "danni collaterali" sembrano essere maggiori dei benefici. Lo dice la scienza. Ecco cosa dobbiamo sapere

Monica, 54 anni, alla terza mammografia si è sentita dire che «aveva un nodulo che andava indagato». Prelievo, biopsia, conferma della diagnosi di tumore (allo stadio iniziale e circoscritto, linfonodi puliti), mastectomia al seno sinistro, niente chemio ma terapia ormonale per i cinque anni successivi. Pur nel trauma della malattia, Monica si ritiene fortunata. Nello stesso periodo di tempo, Elisa, Lucia, Marta, Teresa, Francesca, Erika, Alessandra, Loredana, AnnaMaria, Elisabetta si sono sottoposte allo stesso esame. Dieci donne tra 50 e 60 anni, sane, che allo screening sono però risultate colpite dal cancro.

Si trattava, in realtà, di «tumore duttale in situ»: una delle forme meno aggressive, che nella maggior parte dei casi non si diffonde. Forse sarebbe rimasto lì, senza sintomi né «mire espansionistiche». Avrebbe potuto persino regredire. Nel dubbio, naturalmente, i medici hanno deciso di operare. Sono state fortunate? E chi lo sa.

Ah, e poi ci sono altre 200 donne, risultate positive alla mammografia. Ulteriori indagini e accertamenti, protratti per settimane con tutto il corollario di ansia, sgomento, insonnia, alla fine hanno fugato i dubbi: si trattava di falsi allarmi.

Ecco, il dilemma che da anni ruota intorno allo screening mammografico si riassume in queste cifre: su 2 mila donne (fra i 40 e i 74 anni di età) che fanno la mammografia regolarmente per 10 anni, una si salverà la vita da morte per tumore, a fronte però di 10 donne sane diagnosticate malate e sottoposte a trattamenti e interventi chirurgici anche invasivi, e a 200 falsi positivi. Detto altrimenti: per salvare la vita di una paziente con cancro al seno, è necessario che 2 mila donne si sottopongano per 10 anni, regolarmente, a mammografia.

Questi numeri, ben conosciuti dalla comunità medica (la fonte è la Cochrane Review, una nota associazione scientifica indipendente, e autorevole, che fa revisione di studi), fanno capire come lo screening mammografico abbia limiti e inconvenienti; e come il mito della diagnosi precoce non sia sempre un indiscusso vantaggio.

Le linee guida europee consigliano l’esame ogni due anni, nella fascia d’età fra i 50 e i 70; uguale in Italia, anche se alcune Regioni la stanno estendendo alle donne fra 45 e 49 anni con cadenza annuale e a quelle fra 70 e 74, con ritmo biennale. Negli Stati Uniti gli esperti sono divisi: l’American Cancer Society è favorevole allo screening annuale a partire dai 45 anni. Mentre l’American College of Physicians, in una nuova dichiarazione di orientamento, adesso lo consiglia ogni due anni. Scrive Amir Qaseem, lo scienziato statunitense primo firmatario del documento: «Le prove hanno dimostrato che la mammografia annuale risulta più dannosa di quella biennale». I danni cui si fa riferimento comprendono falsi positivi, trattamenti non necessari e spesso invasivi, esposizioni alla radiazioni: anche se la dose è bassa, troppe mammografie (iniziate in giovane età e ripetute ogni anno) sono un fattore di rischio: ogni mille donne ve ne potrebbe essere una che si ammala proprio a causa dei raggi X.

Non solo. Il Nordic Cochrane Centre ricorda che, in base ai dati epidemiologi, «lo screening mammografico non riduce il rischio complessivo di morire per tumore». Concetto ripreso anche nel sito dell’Airc, dove viene citato uno studio, apparso nel 2015 su Jama Internal Medicine, che ha fatto molto discutere: «Sono stati analizzati gli effetti dello screening mammografico attraverso i registri dei tumori di 547 regioni degli Stati Uniti. Dove una maggior quota di donne si sottoponeva regolarmente ai controlli, non si è ridotto il numero di quelle che morivano per la malattia. Viceversa, per ogni aumento del 10 per cento dello screening, il numero di diagnosi saliva del 16 per cento. Gli autori, oncologi ed epidemiologi dell’Università di Harvard e di Dartmouth, concludono che purtroppo l’effetto più visibile dello screening è la sovra-diagnosi: l’identificazione di tumori che, anche se non scoperti, non avrebbero procurato guai.

Come mai tutte queste diagnosi non si riflettono in un’aumentata sopravvivenza? Perché, come risponde l’Airc nel suo approfondimento, «Nella maggior parte dei casi si tratta di carcinomi “in situ”, la forma tumorale che nella stragrande maggioranza dei casi regredisce spontaneamente».

In tutto questo intrico, fra l’utile e l’inutile, fra danni e benefici, alle donne resta un senso generale di disorientamento. Ma non si era detto che la mammografia salva la vita? Che è meglio farla ravvicinata perché non si sa mai, metti che nell’anno in cui si resta «scoperte» qualche cellula decida di fare per conto suo e di crescere senza permesso e senza avvertire nessuno? Oltretutto, in un paese come il nostro, dove il concetto di prevenzione viene sì enfatizzato, ma poco praticato a livello individuale, non è rischioso insinuare il dubbio che la mammografia non sia poi una panacea?

«Partiamo innanzittutto da un dato fondamentale, cioè che nel mondo la mortalità per tumore al seno dagli anni Novanta sta declinando, in modo lento ma inarrestabile» premette Filippo Montemurro, medico oncologo all’Istituto di Candiolo, a Torino. «Alcuni specialisti, come i radiologi, dicono è merito dei programmi di screening, altri osservano che questo calo si osserva anche in zone non coperte dagli screening, e che quindi è merito dei progressi terapeutici: oltre alla chirurgia, cure ormonali e farmaci biologici. Io credo che sia l’effetto combinato di più fattori. E, da medico, dico anche che un tumore scoperto precocemente mi permette spesso di utilizzare terapie meno aggressive».

Montemurro aggiunge peraltro che nelle donne in pre-menopausa la probabilità di scoprire un tumore al seno con la mammografia supera di poco il 70 per cento, con un numero di falsi positivi (e anche falsi negativi) decisamente più alto che negli anni successivi, dove la sensibilità del test sale fino all’80-85 per cento perché il seno si fa meno denso e più leggibile. «Questo rende molto dibattuta la questione della mammografia fra 40 e 50 anni».

Nonostante ciò, alcune regioni come Piemonte e Lombardia la passano gratuitamente, e addirittura a cadenza annuale, anche nelle donne sotto i 50, quando, in pratica, l’esame vede meno e talvolta «vede sbagliato» (e il test più indicato sarebbe l’ecografia, che usa ultrasuoni al posto dei raggi X). «Gli inconvenienti indotti dall’esame diagnostico, oltre ai suoi benefici, sono proprio le sovradiagnosi: le diagnosi di tumori che altrimenti non si sarebbero mai sviluppati. E questo rischio aumenta nelle donne che hanno meno di 50 anni» precisa Montemurro. «Gli studi clinici mostrano che in questo gruppo di età non c’è un vantaggio clinicamente evidente».

Affermare che la mammografia sia un falso mito sarebbe, però, usare il forcone in un argomento estremamente complesso. Gli studi (in gran parte svedesi) che ne sottolineano l’inefficacia nel ridurre la mortalità si riferiscono a donne con meno di 50 anni. Il perché lo spiega bene Enrico Cassano, direttore di Radiologia senologica all’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano. «Il problema della mammografia è che studia bene la mammella che ha una struttura composta da tessuto adiposo, tipico dopo la menopausa, e meno bene laddove c’è più tessuto fibroghiandolare, come nelle donne più giovani. Nella fascia d’età fra 50 e 70 anni lo screening mammografico riduce il rischio di mortalità del 30 per cento, ciò che non avviene fra le donne più giovani».

Insomma, il seno dei 40 anni rivela meno di un seno 60enne. E se alcune donne conservano un tessuto denso anche dopo la menopausa, ecco che la mammografia risulta meno affidabile. Personalizzare l’esame, al di là dei protocolli, è la strategia migliore per non smarrirsi nel ginepraio di una prevenzione spesso semplicistica. Ogni screening (vale anche in altri casi, per esempio nella ricerca del Psa per la prostrata) comporta rischi e danni, su cui si sorvola per non scoraggiare l’abitudine, spesso svogliata, a farsi controllare. Nel caso delle donne, per esempio, quali sono quelle davvero più a rischio di tumore al seno? «A parte la presenza dei geni BRCA1 e 2, e la predisposizione familiare, incidono negativamente il fumo, l’obesità, lo stile di vita e naturalmente il fattore età» risponde Cassano.

Non fa invece differenza avere un seno grosso o piccolo, come a volte si pensa. E anche avere avuto figli, oppure no, non conta poi così tanto. «Contava di più in passato, quando magari di bambini se ne facevano 3 o 4 in giovane età, e si allattavano tutti. Alcuni studi spagnoli infine indicano che le gravidanze tardive aumentano il rischio rispetto a chi i figli li ha fatti prima». Le donne che rischiano di più, alla fine, che esami devono fare? «Con lo studio Pink, che abbiamo iniziato da alcuni mesi con il sostegno della Fondazione Veronesi, vogliamo capire l’impatto in termini di efficacia, per le donne sopra i 50 anni, di ecografia e mammografia annuali, così da avere una valutazione combinata».

Il futuro degli screening va verso la mammografia 3d con tomosintesi: anziché fotografare il senso per intero, lo fa a strati, e quindi vedrà meglio. Con due inconvenienti, però: una dose maggiore di raggi X e un tempo di lettura più lungo. Il dibattito, ci pare di capire, non si concluderà tanto presto.
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Daniela Mattalia