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ABDULLAH DOMA/AFP/Getty Images
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Libia, tra guerra vera e guerra finta

In Libia la propaganda manipola immagini ed informazioni per aumentare l'odio verso l'Italia e gonfiare i numeri sui clandestini

Il presidente americano Donald Trump che guarda in tv Ahmed al Mismari, portavoce del generale Khalifa Haftar, è il fotomontaggio più clamoroso per far pensare che la Casa Bianca stia dalla parte dell’uomo forte della Cirenaica. La fake news è stata creata ad arte e lanciata sui social quando è trapelata la vera notizia della telefonata di Trump ad Haftar del 15 aprile in piena battaglia di Tripoli.

In Libia accanto alla guerra vera si combatte quella finta, ma altrettanto insidiosa, della disinformazione. Il governo riconosciuto dall’Onu di Fayez al Serraj difende Tripoli dall’attacco dell’Esercito nazionale libico del generale Haftar. La battaglia per la capitale si combatte anche a colpi di propaganda e manipolazioni amplificate sui social o su canali tv schierati sui fronti opposti. Nel mirino sono finiti anche i 400 soldati italiani impiegati in Libia all’ospedale militare di Misurata e sulla nave Capri ormeggiata nella base navale di Abu Sitta a Tripoli per aiutare i libici nella lotta all’immigrazione clandestina. Il fronte di Haftar ha spacciato un simbolo tricolore con delle figure nere di uomini armati su un fuoristrada in prima linea, come «prova» del coinvolgimento dei corpi speciali italiani al fianco dei governativi. In realtà, si tratta del simbolo del battaglione Ben Galpoon di Misurata, la «Sparta» libica, che combatte al fianco di Tripoli. Al fronte, molti miliziani indossano le mimetiche italiane: i libici sono stati addestrati nel nostro Paese per anni grazie a un programma di ricostituzione delle forze armate servito a poco.

Gli uomini di Haftar accusano l’ospedale militare italiano all’aeroporto di Misurata di fare da «scudo umano» e di «curare i miliziani che combattono contro di noi». L’intimazione è che i nostri soldati rientrino subito in patria. In appoggio, spuntano pseudo organizzazioni della società civile e le tribù di una trentina di località della Cirenaica che hanno inviato una richiesta all’Italia di «ritirare le truppe dal Paese per evitare la reincarnazione del ruolo di Stato coloniale». La pagina Facebook pro Haftar intitolata «Cosa succede in Libia» alimenta il risentimento anti italiano parlando di «forze di occupazione» e aggiungendo che Omar al Mokhtar, il ribelle libico che abbiamo impiccato durante il colonialismo, «si è sacrificato per cacciarli e Tripoli ha riportato i soldati italiani nel nostro Paese».

Pure sui migranti si gioca la carta della propaganda gonfiando i numeri. Lo stesso premier Serraj ha lanciato l’allarme su «800 mila persone che potrebbero cercare di raggiungere le coste italiane per fuggire all’incalzare dell’attacco delle forze di Haftar». L’intelligence Usa stima che i migranti siano al massimo 100 mila. Il ministero dell’Interno libico indicava 20 mila clandestini nei centri di detenzione all’inizio del conflitto. L’assurda verità è che i migranti non partono a causa della guerra. La via d’afflusso meridionale dall’Africa subsahariana, verso la Tripolitania, è bloccata dai combattimenti. «E i trafficanti sono impegnati a combattere o a sostenere il fronte, da una parte o dall’altra. Non hanno il tempo per far partire i gommoni» spiega il commodoro Ayoub Omar Ghasem, portavoce della Marina di Tripoli. «La guerra della disinformazione ha un peso importante nel conquistare il favore della popolazione, i cuori e le menti. L’aspetto militare prevale, ma per almeno il 35 per cento conta anche la guerra delle parole e dei like. Serve pure a mobilitare e reclutare chi stava a guardare» osserva una fonte occidentale a Tripoli che monitora il conflitto.

I libici sono attaccati ai social via cellulare e la tv è sempre accesa sia nei locali pubblici che in casa. «Haftar ha copiato la tecnica dei video dell’Isis sulle lunghe colonne di Toyota che sventolavano la bandiera nera per intimorire gli avversari» spiega la fonte di Panorama, che non può rendere pubblico il suo nome. La guerra è iniziata il 4 aprile con «il filmato di 300 mezzi di Haftar, zeppi di corpi speciali armati fino ai denti, in marcia verso Tripoli».

Il generale della Cirenaica ha messo in piedi un «esercito elettronico» con tanto di pagina Facebook, che alimenta il conflitto virtuale. Una delle manipolazioni più a effetto ha coinvolto una milizia di Janzour, porto vicino a Tripoli, che combatte per il governo riconosciuto dall’Onu. Nel 2016 aveva partecipato alla battaglia di Sirte. I suoi combattenti si erano fatti un selfie con un bandierone nero dell’Isis appena strappato al nemico. La propaganda di Haftar ha pubblicato la foto in rete sostenendo che i seguaci del Califfo sono al fianco di Serraj. «Esperti» militari postano sequestri di armi dei governativi mostrando foto di casse di munizioni sequestrate in Siria. La contro propaganda di Tripoli ha anche smascherato l’immagine di un caccia governativo che precipita in fiamme: in realtà era un aereo militare abbattuto nei cieli siriani.

Qualche volta la guerra in rete di Haftar centra l’obiettivo. Durante i cortei contro il generale nella piazza dei Martiri, dove il colonnello Gheddafi arringava le folle, Noman Brioni si è fatto immortalare mentre distribuisce pane e dolci. Non è un pacifico attivista, ma un volontario della guerra santa che in Siria ha combattuto nelle file jihadiste con tanto di foto ricordo pubblicate in rete dagli anti governativi.

Anche Tripoli ha una mini armata di specialisti della contro informazione, compresi giornalisti e hacker, che smascherano la propaganda nemica e rilanciano notizie vere o false utilizzando gli stessi metodi usati nella campagna elettorale americana che ha fatto vincere Trump. Nella guerra della disinformazione in Libia vengono utilizzati i «bot», account non umani che rilanciano a dismisura post su Twitter o foto via Instagram.

Più sottile la simbologia a uso dei media occidentali per le manifestazioni di piazza contro Haftar e i suoi «padrini» come il presidente Emmanuel Macron: donne velate e uomini barbuti indossano i gilet gialli dei ribelli francesi che protestano contro l’Eliseo.

La terminologia di guerra è un altro terreno di scontro. Per Haftar il governo si regge sulle baionette dei terroristi. Tripoli lo bolla come un criminale di guerra «che vuole diventare il nuovo Gheddafi», sostiene un combattente di Bengasi in prima linea. Ai giornalisti viene praticamente ordinato di non chiamare i combattenti governativi «miliziani», anche se dipendono da una miriade di khatibe, le brigate autonome che rispondono solo ai loro comandanti. Ed è un problema immortalarli come sono veramente: in ciabatte, senza mimetica o con uniformi variegate. L’obiettivo è dare l’idea di un esercito, che in realtà si è unito solo ora grazie al comune nemico Haftar.

Gli attacchi della propaganda provocano immediate rappresaglie. Al Mismari, portavoce dell’Esercito di Haftar, ha presentato un pannello con le facce dei capi delle milizie pro Tripoli e i soldi che si sarebbero intascati. «Abdul Rauf Kara, comandante di Rada (forza di deterrenza, ndr) attraverso la società Sail, capitale 3.720.000 di dollari» si legge sulla tabella con otto comandanti nella capitale. Poche ore dopo un hacker deve essere penetrato nel cellulare di Al Mismari, pubblicando in rete le foto di moglie e figli nel lussuoso salotto di casa. La guerra della disinformazione si combatte anche attraverso le tv satellitari che hanno un vasto seguito in Libia. A seconda di dove trasmettono, è chiaro lo schieramento. La sede di Libya Al Ahrar è a Doha, capitale del Qatar, che appoggia Tripoli. Il direttore, Suleiman Doha, è un ex fidato di Seif el Islam, uno dei figli sopravissuti di Gheddafi, indicato come delfinio del colonnello. Dal crollo del regime del 2011 ha cambiato bandiera. La redazione di Libya channel, invece, è in Giordania, che addestra le reclute dell’Esercito libico di Haftar. Il fondatore, Haref al Mayed, è un milionario liberale considerato «il volto pulito» dello schieramento che appoggia il generale.

Non sempre, però, la guerra virtuale funziona. La foto su Facebook di un combattente di Misurata legato alla corazza di un carro armato come scudo umano ha provocato un effetto boomerang sulle truppe di Haftar che l’avevano postata con orgoglio. Nel conflitto della disinformazione non mancano aspetti ridicoli. Sulla pagina ufficiale Libia Karama, pro Haftar, hanno pubblicato un fotomontaggio con la faccia baffuta del generale che spunta dalle nubi rosate del tramonto sulla capitale. Il titolo non lascia dubbi: «Il volto del maresciallo nel cielo di Tripoli. Un segno di Allah che vinceremo».
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Fausto Biloslavo