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Osama Falah/PPO via Getty Images - agosto 2018
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Una confederazione fra Palestina e Giordania

È l'idea Usa per un piano di pace. Ma Abu Mazen rifiuta e rilancia. Intanto si avvicinano le elezioni amministrative in Israele: quanto conteranno gli arabi?

La proposta è arrivata a poca distanza dall'ennesimo "passo falso" statunitense, con lo stop ai fondi destinati all'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.
Una decisione, anticipata dal Washington Post e che l'amministrazione Trump dovrebbe ufficializzare tra poche settimane, ma che ha già avuto l'effetto di far infuriale la comunità palestinese. Ciononostante, il piano di pace per il Medio Oriente della Casa Bianca va avanti: la proposta presentata ad Abu Mazen consiste in una confederazione tra Palestina e Giordania. Il leader palestinese ha però risposto: "Voglio anche Israele".

Il piano di pace

Da oltre un anno l'Amministrazione statunitense lavora a un piano per il Medio Oriente, che nelle intenzioni di Donald Trump vorrebbe essere "l'accordo del secolo". A occuparsene sono Jason Greenblatt, inviato speciale Usa, e Jared Kushner, genero di Trump e marito di Ivanka, di religione ebraica lui stesso. Sono stati loro a presentare l'idea di una confederazione con la Giordania, appoggiata anche da Egitto e Arabia Saudita, che lavorano alla proposta di pace. Abu Mazen, però, ha risposto rilanciando: "Voglio una confederazione con la Giordania, ma anche con Israele".

Se non si tratta di un secco "no", sicuramente la controproposta certo non troverà terreno facile a Tel Aviv, dove il premier Netanyahu e il suo partito Likud sostengono invece sosteneva l'ipotesi che la Palestina possa dar vita a un ente sovranazionale con Amman.

La (non) risposta di Israele

Se Netanyahu sarebbe favorevole all'idea di "unire" la Cisgiordania alla Giordania, con un'amministrazione che mantenga le rispettive autonomie, a Tel Aviv si sottolinea il fatto che al momento qualunque proposta di mediazione è naufragata. "Tutti i negoziati ci hanno portato a un vicolo cieco, perciò Israele deve assumersi la responsabilità di agire unilateralmente" ha dichiarato senza mezze misure il ministro della Difesa israeliano, Lieberman, uno dei falchi dell'esecutivo israeliano.

Ancora più dura la posizione nei confronti di Gaza e dei suoi abitanti, accusati di terrorismo: "Ogni gazawi (residenti nei territori, Ndr) che si preoccupa per la sua vita, deve capire che chiunque fa parte del terrorismo sta danneggiando i suoi mezzi di sostentamento” ha affermato.

La posizione della Giordania

Il governo di Amman per ora respinge ogni ipotesi di confederazione. "Non è materia di discussione, non è possibile" ha dichiarato senza lasciare margine di trattativa il portavoce dell'esecutivo giordano, Ghneimat, secondo cui l'unica soluzione resta quella dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese. D'accordo anche il portavoce della stessa Autorità palestinese, Nabil Abu Rudeinah, che la ritiene una precondizione a qualsiasi altra discussione futura.

La guerra interna palestinese

La proposta Usa, seppure congelata dall'Autorità Nazionale Palestinese, non fa però che alimentare nuovi contrasti anche all'interno della stessa comunità palestinese, acuendo lo scontro tra l'ANP e Hamas, che controlla la Striscia di Gaza e considera Abu Mazen troppo debole. Anche in questo caso la distanza tra Ramallah (quartier generale del leader dell'Autorità) e Gaza è enorme. Nei territori si continua a considerare Abu Mazen un leader dimezzato e non rappresentativo dei palestinesi, chiuso nel suo fortino e lontano dalla "prima linea" dei combattimenti con Israele. Il leader di al Fatah è visto persino come "collaboratore" di Tel Aviv e dunque viene rifiutata l'idea di ogni possibile accordo che l'83enne presidente possa prendere con Israele.

Il nodo dei rifugiati

Che Abu Mazen potesse accogliere senza battere ciglio la proposta di Washington era piuttosto improbabile. Ora, però, occorrerà capire quali mosse ha in serbo l'amministrazione Trump, il cui rapporto con i palestinesi ha subito un ennesimo colpo dopo la rivelazione del Washington Post, secondo cui gli Usa vogliono ridurre i fondi per l'agenzia per i rifugiati: "Gli Usa - avrebbe detto il presidente palestinese a esponenti del gruppo PeaceNow - vogliono distruggere l'Unrwa completamente", sottolineando come il 70% degli abitanti di Gaza sia composto da rifugiati. "Come è possibile abolire l'Unrwa da un lato e poi dare aiuti umanitari ai palestinesi dall'altro" avrebbe chiesto provocatoriamente il leader di al Fatah, ricordando anche come Trump, nei loro incontri passati si fosse detto favorevole alla soluzione dei due stati, con la creazione di una zona demilitarizzata, sotto controllo Nato".

L'agenzia Onu per i rifugiati gestisce un budget da 1,1 miliardi, che però secondo Trump sarebbero spesi male. Non solo: l'Unrwa è accusata di concedere lo status di rifugiati a un numero troppo elevato di palestinesi. "C'è un numero di rifugiati che continua a ottenere assistenza" ha spiegato l'ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aggiungendo: "E dov'è l'Arabia Saudita? Dove sono gli Emirati Arabi? Dov'è il Kuwait? Non gli importa a sufficienza dei palestinesi per offrire soldi in grado di assicurare che ci si prenda cura di questi bambini?".

Le elezioni e gli arabi in Israele

In un quadro di incertezza come quello attuale, intanto, Israele si prepara alle elezioni amministrative in programma a ottobre, con una possibile novità. La popolazione araba, infatti, sembra decisa a interrompere il proprio silenzio (di protesta). Se finora si era rifiutata di prendere parte alle consultazioni, che riguardano città come Gerusalemme, in disaccordo con le politiche israeliane nei confronti della componente araba, questa volta potrebbe contare su una propria rappresentanza.

Per la prima volta, infatti, alle elezioni municipali nella "città santa" parteciperà la lista araba "Gerusalemme dei gerosolimitani" mentre a Tel Aviv-Giaffa è pronta "La mia Giaffa".

A Gerusalemme la componente araba costituisce il 40% dei residenti. La maggior parte ha sempre rifiutato la cittadinanza israeliana, opponendosi al riconoscimento dell'amministrazione israeliana e godendo di uno statuto speciale. Solo il 9/11% del bilancio municipale, però, sarebbe riservato ai quartieri arabi, che contano su un certo margine di autonomia (anche nella gestione delle scuole) e ricevono fondi dall'ANP. Da maggio del 2018, però, il premier israeliano Netanyahu ha iniziato un processo di "normalizzazione" che prevede maggiori risorse per la componente araba, investimenti in infrastrutture e istituzioni scolastiche, ma anche un maggior controllo sui quartieri arabi.

Proprio questo potrebbe aver spinto la popolazione a voler diventare più partecipe anche della vita amministrativa di città come Gerusalemme e Giaffa. Tra i maggiori esponenti di questo nuovo corso c'è Raman Dabbash, medico del quartiere arabo di Sur Baher, fondatore dei gerosolimitani, unitosi al Likud israeliano nel 2014 e desideroso di dar voce alla componente araba di Gerusalemme, senza voler boicottare l'esecutivo israeliano. Potrebbe diventare il primo consigliere comunale arabo della città.

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Eleonora Lorusso