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Irene Pivetti: "Con Forza Italia voglio costruire l'Eurasia"

Candidata alla Europee con Berlusconi l'ex pasionaria di Bossi racconta retroscena del passato e progetti per il futuro

Onorevole Pivetti, dov’era finita?

Da nessuna parte. Anche se negli ultimi anni ho passato molto tempo all’estero, soprattutto in Cina.

Questo lo sapevo, ma non ho mai capito cosa ci facesse esattamente.

Ci ho lavorato. Oggi posso dire di aver visto davvero la frontiera lungo cui corre il nuovo mondo.

In Cina?

Sì: ci sono stata con una società che ho fondato, per fare consulenze sul campo e favorire le esportazioni dei nostri imprenditori in Asia.

E ora può dire di conoscerla davvero bene, la Cina?

(Sorriso). Guardi, non sono il tipo che gonfia i muscoli: ma proprio stasera parto da Malpensa e vado a Pechino. È il mio sessantesimo viaggio da quelle parti, faccia lei.

Però.

Quest’esperienza così intensa ha cambiato anche il mio modo di vedere il mondo e l’Italia.

Dice davvero?

Assolutamente sì. In Cina ho capito che ci riempiamo la bocca con il Made in Italy qui, il Made in Italy là... e invece siamo solo Dumbo.

Cosa c’entra l’elefantino del film di Tim Burton, adesso?

(Sorride. Una delle doti della Pivetti è il sorriso. Proprio lei che è diventata famosa con il leggendario «broncetto presidenziale»). C’è anche quello del cartone della Disney, ma sì, proprio lui.

Cosa c’entra Dumbo con il Made in Italy?

Noi italiani non siamo nel mondo quello che crediamo di essere.

No?

(Altro sorriso). Noi non siamo lo stile e la Ferrari. O meglio: siamo anche quello, ma non è quello che ci rende veramente grandi, fuori.

Davvero?

Guardi: io ho girato intere province e molte città, dove tra i pochi stranieri che sono stati mai avvistati nell’ultimo secolo c’erano solo due distinte figure antropologiche.

Quali?

(Altro sorriso). Un ingegnere tedesco e la sottoscritta.

Neanche un francese?

I francesi si occupano di una cosa, divinamente, che è la haute cuisine, o come si dice oggi, il food. È un altro target, però. Loro non sono suola e scarpe, come noi e i tedeschi.

Ripeto: Dumbo cosa c’entra?

Dumbo, se si ricorda, ha paura di non poter volare. E lo fa - com’è noto - per via delle sue orecchie lunghe. Però si fa prestare da un pappagallo una piuma che gli serve da placebo.

E poi c’è la scena in cui l’elefantino quella piuma la perde.

Che è fondamentale! Perché solo allora capisce che può volare anche senza. Non era la piuma a tenerlo sospeso in aria, ma proprio quelle sue orecchie.

Il che, trasposto sull’export, cosa significa?

Ecco, noi non abbiamo bisogno di Gucci, Versace o Armani per volare.

Mi faccia un esempio.

Siamo bravissimi nella gestione della logistica di un cantiere. Siamo geniali nel pianificare un distretto industriale. Noi su quel terreno siamo molto più creativi dei francesi e molto più flessibili dei tedeschi. Siamo quelli delle macchine industriali e della manifattura di qualità. Siamo più bravi, soprattutto in questi campi.

E cosa non va, allora?

(Allarga le braccia) Non ne siamo consapevoli! E pensiamo piuttosto che conquisteremo il mondo con gli chef dei reality. Una follia.

Cosa c’entra questo con la sua candidatura alle europee?

Mi piacerebbe portare a Strasburgo questa mia esperienza. Senza esterofilia, ma anche senza alcuna reverenza.

Come le è venuto in mente di tornare ancora una volta in campo, come capolista, per giunta?

(Pausa e sospiro). Me l’ha proposta Antonio Tajani. Gli ho detto di sì.

Tajani avrà fatto da demone tentatore, ma perché proprio in Forza Italia?

Se glielo dico, non mi crede.

Ci provi.

Perché è un partito in difficoltà. Che deve fare una difficile battaglia per la sua sopravvivenza.

Aveva ragione: non le credo. Lei non è il tipo della missionaria crocerossina.

E invece glielo spiego: ho fatto di tutto nella vita. Sono stata la più giovane presidente della Camera, poi sono stata espulsa dal mio partito, quindi sono stata istruita da Cossiga, sono stata presidente dell’Udeur e, ancora, ho fatto radio, televisione, adesso sono tornata con la lista «Italia Madre»...

E lei mi vuole far credere che con quest’esperienza accetta una sfida perché è più difficile? Sarebbe masochista.

Pensi quello che vuole. Io, siccome ho già iniziato a girare il partito, mi rendo conto che sta vivendo una condizione bellissima e rara.

L’essere in difficoltà?

Sì, perché si è attuata una particolarissima selezione della specie. I carrieristi e gli opportunisti se ne sono andati.

Dove?

(Sorrisone). Provi a indovinare.

Me lo dica lei.

Vanno dove pensano di agguantare una poltrona facile. Da noi sono rimasti solo quelli che ci credono. Le pare poco?

Sì, ma perché proprio quando la sua Lega raggiunge il record storico, lei che dopo un lungo viaggio era tornata a casa, la abbandona?

Ma è evidente.

Ovvero?

Io sono autonomista, non sovranista. Se la Lega prende questa direzione, è Salvini che si sta spostando, non io.

E lei che cosa fa?

Resto liberale. Nell’unico partito liberale sopravvissuto: Forza Italia.

In trent’anni di biografia politica Irene Pivetti ha cambiato molte vite, riuscendo ogni volta a far dimenticare la sé stessa precedente, grazie al clamore suscitato dalla Pivetti successiva. Le camicette di pizzo accollate a Montecitorio, quella verde battagliera sul palco di Pontida, il memorabile completo in latex nero da Catwoman, i capelli cortissimi quando era conduttrice televisiva. Adesso, quando la raggiungo in un albergo di Milano dove sta posando per un servizio, è una nuova Pivetti: capolista di Forza Italia, capelli lunghi e ricci, brizzolati: «Ormai sono una donna di 56 anni», dice con autoironia. Perché sa che non si vede.

Pivetti, o della metamorfosi.

Non si deve stupire. Dopotutto vengo da una famiglia di teatranti.

Si riferisce a sua sorella Veronica, nota attrice?

Non solo. Mio padre era regista, mia madre era attrice di teatro.

E lei voleva fare l’astronoma.

Vero, come Margherita Hack. Ma come può notare, mi sbagliavo.

Ed è vero anche che da ragazza andava a seguire i comizi di Achille Occhetto?

Oddio! Questo me lo ero dimenticato anch’io. Ma è accaduto. Ero curiosa.

Curiosa del segretario del Pci e tre anni dopo era nella Lega?

Avevo vent’anni, avevo iniziato a misurarmi con la vita. In effetti ho guardato con interesse all’ala migliorista del Pci. Poi il destino ha scelto altrimenti.

Si sarebbe potuta trovare con Napolitano e Macaluso, ma è diventata la rockstar della Lega di Bossi!

Pensi, ero andata a Roma a incontrare anche il professor Carandini, persona squisita. Il mio riferimento era lui. Ero attiva fra gli studenti cattolici, intorno a «Dialogo e Rinnovamento».

E poi conosce Umberto Bossi in una pizzeria di Milano.

Questa non so dove la abbia letta, ma è una balla.

Allora come l’ha incontrato?

Non ci crederà: mi ha chiamato lui, a casa.

Non ci credo. Bossi era già «il senatùr», un leader nazionale.

Invece le cose andarono proprio così. Calcoli che nel 1990 eravamo nel Pleistocene, non esistevano le mail, gli sms, nulla. Un giorno mi squilla il telefono e Umberto mi dice: «Vorrei conoscerla».

Ma com’era accaduto?

Come si fosse procurato il numero non lo so. Io avevo scritto un articolo sui cattolici e la Lega. E lui si era incuriosito.

Perché?

La mia tesi era: può esistere un voto cattolico fuori dalla Dc. Adesso appare normale, allora era un’idea che sembrava folle.

E poi?

Il giorno dell’incontro Umberto mi fa parlare per mezz’ora, continua a fare sì con la testa e, improvvisamente, m’interrompe.

Per dirle cosa?

«Brava! È come pensavo. Siccome tu sei cattolica, mi serve qualcuno che si occupi dei cattolici della Lega. Voglio che quel qualcuno sia tu».

E lei?

Io non avevo la più pallida intenzione di accettare. Ho anche pensato: «Questo è matto».

Quindi ha rifiutato?

(Sospiro). Macché. Lui mi ha sommerso di parole, ha parlato per un’altra ora, e dopo non so cosa sia successo.

In che senso?

Una settimana ed ero responsabile della Consulta cattolica del Carroccio. Insieme con Giuseppe Leoni.

Incredibile. Nel 1992 vengo eletta la prima volta.

Tra i famosi «barbari leghisti», come vi chiamava Giampaolo Pansa.

Era il famoso «parlamento degli inquisiti». Ogni giorno c’era un nuovo avviso di garanzia. Marco Pannella riuniva i deputati indagati all’hotel Montecitorio.

Il ricordo più vivido?

Il discorso di Bettino Craxi con la celebre chiamata di correo. Ero indignata. Stavo davanti all’«Hotel Raphaël» proprio il giorno in cui la folla gli lanciò le monetine.

Non mi dirà che era lì per caso?

Invece è così. Abitavo a pochi metri, l’albergo era lungo il mio percorso. Mi sono ritrovata lì, proprio mentre è successo quell’episodio cruciale.

E adesso mi dirà che era disgustata.

Al contrario. Provavamo in quelle ore l’ebrezza di rifare da capo il mondo.

Poi lei diventa addirittura la presidente della Camera più giovane della storia italiana.

(Sorriso) Vede? Un grande futuro dietro le spalle.

Lei all’epoca non sorrideva mai, portava camice accollate in stile Luigi XVI, ostentava la croce di Vandea. E il celebre «broncetto».

Facciano chiarezza. Primo: ero solo più giovane, un po’ più radicale nei modi, ma non ho mai cambiato le mie idee. Secondo: non ostentavo proprio nulla. Di quella croce parlano tutti, ma nessuno la può aver vista.

Dice?

La portavo al collo, ma sotto la camicia. Sfido Panorama a trovare una foto in cui si possa vedere.

Se tutti ne abbiamo discusso senza averla mai vista è stato comunque un capolavoro mediatico.

(Ride). Tutti ne discussero e ne scrissero, questo sì. Era più importante il simbolo che l’oggetto: significava evocare un nuovo orgoglio cattolico.

Ma come era nata quella croce?

Molte semplicemente. Tenevo i rapporti con i movimenti cattolici europei autonomisti. E mi ritrovai in Vandea, ospite di Philippe De Villiers, ex sottosegretario del presidente francese Jacques Chirac, futuro eurodeputato, leader fortemente cattolico e identitario.

E cosa accadde?

Mi mostrò la croce, spiegandone la storia. Mi piacque, e da quel giorno decisi di indossarla sempre.

Lei era il volto più noto dopo Bossi. Andò persino a Pontida in camicia verde.

Quella camicia non era un simbolo guerresco, per me rappresentava l’anima popolare della Lega. Ma io ero già in rotta con Bossi, quel giorno.

Perché?

Non accettavo il secessionismo. Lo consideravo un grave errore.

Ci fu una discussione fra voi?

Non una parola: Umberto era così.

Sì, ma come seppe di essere fuori dalla Lega?

Ci eravamo visti prima dell’estate.

A settembre torno. Mi raggiunge Domenico Comino, che allora era capogruppo, alla Camera e mi dice: «Irene. Ti abbiamo espulsa». Fine.

E lei si trova un nuovo padrino politico.

Fondo un nuovo partito politico, l’Italia Federale. Ma entriamo con Cossiga, nell’Udr. Nel governo.

Che ricordi ha di Francesco Cossiga?

Prima di tutto, un gran signore. Era intelligente, estroso, colto. Un maestro di politica, mi ha insegnato molto.

Lei in questa nuova vita porta le culle a Montecitorio, dismette i panni della guerriera vandeana.

Prima ero rigida perché stavo sulla difensiva. In quel momento, invece, stavo diventando madre.

A proposito: come stanno quei bimbi?

Sono grandi! Mia figlia ha vent’anni e mio figlio 19. Gliel’ho detto che sono una vecchia signora.

Finita la legislatura un nuovo salto. Si reinventa conduttrice televisiva. Come accade?

Guardi, merito di Costanzo. Stava nascendo la nuova La7, lui era consulente e mi disse: «Propongo te e Massimo Gramellini». Non eravamo male come esordienti...

E qui, per spiegare al mondo che c’era una nuova Pivetti, arrivano le foto in tenuta latex e il frustino.

(Risata sonora). Oddio, il frustino non me lo ricordo! C’era?

C’era eccome. Non faccia altre scommesse che poi perde.

Bene, quella cosa nacque con nessuna premeditazione. Lavoravo a Radio Montecarlo. La campagna pubblicitaria prevedeva i vari conduttori in maschera.

E quindi?

(Risata). Qualcuno si vestì da Superman, ma non se lo ricorda nessuno.

Beh, per forza: mica passava dalla Vandea alla kryptonite!

Guardi che Catwoman è una figura molto positiva. Donna, emancipata...

Perché non ammettere che lei sapeva benissimo le reazioni che avrebbe suscitato?

Certo che lo immaginavo. Faccio delle scelte sapendo sempre dove mi portano. Quella accendeva la discussione, rompeva un tabù.

Lei ha lavorato a Bisturi con Platinette.

È un bellissimo personaggio. E ho in ricordo straordinario di Mauro (Coruzzi, ndr).

È stata persino nella scuderia di Lele Mora.

Era il 2006. Il Lele Mora di allora era una figura unica. Anche Michele Santoro aveva contatti con lui, come tanti giornalisti di grido. Andavi da lui e ci trovavi un ministro e un tronista.

Mi racconti ancora della Cina. Cos’ha imparato?

Con la Cina bisogna negoziare. E bisogna evitare il doppio errore.

Cioè?

Guardare i cinesi con supponenza razzista, ma al tempo stesso subirli come degli zerbini. Noi con loro ci comportiamo così. È folle.

E allora cosa sono i cinesi?

Sono una grandissima opportunità.

Troppo scontato.

Sono napoletani dentro. Proprio come noi. Pensano di essere più furbi, proprio come noi, se possono ti fregano, proprio come noi, e hanno una genialità, proprio come noi, ma diversa dalla nostra.

Cioè?

Noi siamo geniali nei talenti individuali. Loro nel lavoro collettivo.

Mi dica una cosa in cui l’Italia perde terreno nella sfida dei mercati.

Lei sa che cos’è un «treno blocco»?

Non ne ho idea.

È un «espresso merci» che arriva in Cina. Per poterlo usare, questo treno lo devi prenotare, programmare, pagare.

E noi?

Siccome non riusciamo a farlo, dobbiamo passare per la Germania. Ecco un banale esempio di come spendiamo di più e perdiamo opportunità. Perché non facciamo squadra.

Parliamo della tele-Pivetti. È diventata ricca con i programmi?

(Sorriso). Devo mostrarle il mio estratto conto?

No, parlare di soldi, che solo in Italia sono un tabù.

In televisione ho lavorato, per fortuna, quando si era ancora pagati molto bene.

E in Cina guadagna?

(Sorriso più ampio). Se investi molto guadagni molto. Io ho investito molto.

Parliamo della Tv, adesso: da La7 di Costanzo a Mediaset di Berlusconi.

Sì, però c’era Piersilvio. Con lui avevo un ottimo rapporto.

Ha fatto di tutto, passando dalla politica alla chirurgia plastica.

Ho rifiutato anche cachet molto importanti.

Addirittura?

Sì, ma non c’è nulla di eroico. Si trattava di un reality in mutande: non era roba per me.

Ancora non ho capito se la Pivetti sia spregiudicata o moralista.

(Risata). La Pivetti fa quello che ritiene giusto fare, a qualsiasi costo, e rifiuta quello che non ritiene giusto, a qualsiasi prezzo.

E cos’ha imparato passando da Bossi a Mastella, da Mediaset alla Cina?

Prenda la storia del latex. Non c’è cosa più eterna di ciò che sembra apparentemente volatile.

Perché la sua società si chiama Only Italia?

Si tratta di un refuso provvidenziale.

Spieghi.

Discutevo con un cinese e con un amico italiano, che per fortuna non parlava bene inglese. Bisognava andare al punto e lui ripeteva: «Only Italia! Only Italia!». Avrebbe dovuto dire Italy, ovvio, ma quello faceva di sì con la testa, aveva capito perfettamente.

E quindi?

Ho pensato: «Questo è il nome che cercavo». Infatti lo capiscono tutti, dappertutto.

E ce l’ha uno slogan così accattivante per le Europee?

Vorrei rinegoziare la posizione dell’Italia in Europa.

Mhhh... già sentito.

Dobbiamo costruire l’Eurasia.

Meglio. Ma un po’ ambizioso.

Senta, in quest’anno ho capito un’altra cosa fondamentale: il problema delle dimensioni.

Prego?

Quanto siamo piccoli quando andiamo nel mondo. Quando si esce dai confini dell’Europa la scala diventa enorme, e se non c’è massa sufficiente scompariamo.

Allora?

La Germania oggi l’ha capito e usa l’Europa come un «amplificatore di dimensioni». Proietta sé stessa, usando noi per aumentare il proprio peso.

Detto così sembra un po’ salviniano.

Casomai è il contrario! Abbiamo bisogno di un’Europa che non sia «germanocentrica», ma senza Europa noi non esistiamo.

Ha parlato a lungo con Berlusconi, mi dica una battuta che le ha fatto.

La deluderò: zero battute.

Non ci credo.

Ho provato il piacere di discutere di politica internazionale con una persona che «vola alto».

Ma in questa discussione le avrà detto qualcosa che l’ha colpita!

Sì, ma non era una barzelletta, era una idea serissima: «Irene: dobbiamo riprenderci il Mediterraneo!». Ne sono talmente convinta che lo ripeterò ovunque. n

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Luca Telese