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La strategia Usa dietro il raid contro il generale Soleimani

Perché Donald Trump ha dato il via libera al raid aereo e cosa succederà ora in Medio Oriente

E’ altissima la tensione tra Stati Uniti e Iran. Nella notte, un raid americano ha ucciso il generale iraniano Qasem Soleimani: capo della Forza Quds, unità speciale delle Guardie della Rivoluzione islamica. A renderlo noto è stato il Pentagono che, in un comunicato, ha dichiarato: “Sotto la direzione del presidente, le forze armate statunitensi hanno intrapreso azioni difensive decisive per proteggere il personale americano all'estero uccidendo Qasem Soleimani, capo della Forza Quds, considerata dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica straniera”. “Questo bombardamento aveva lo scopo di dissuadere i futuri piani di attacco iraniano”, ha proseguito il comunicato, “Gli Stati Uniti continueranno a prendere tutte le misure necessarie per proteggere il nostro popolo e i nostri interessi ovunque si trovino nel mondo”. L’attacco è avvenuto all'aeroporto internazionale di Baghdad e – oltre a Soleimani – ha ucciso anche Abu Mahdi al-Muhandis, il vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare: un insieme di organizzazioni paramilitari irachene principalmente sciite, legate a Teheran. La reazione della Repubblica Islamica alla notizia della morte di Soleimani è stata particolarmente dura. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha dichiarato che l’uccisione del generale rafforzerà la resistenza di Teheran contro gli Stati Uniti, mentre l’ayatollah Ali Khamenei ha promesso “vendetta” contro Washington.

Soleimani era uno degli uomini più potenti della Repubblica Islamica: un punto di raccordo tra vari mondi profondamente ostili nei confronti degli Stati Uniti. Il generale risultava innanzitutto la figura di riferimento per i pasdaran: quegli stessi pasdaran che, da mesi, stanno soffiando sul fuoco delle tensioni con Washington, auspicando una linea dura che metta in crisi le posizioni più caute dell’attuale presidente iraniano, Hassan Rohani. Soleimani, tra l’altro, era considerato un uomo particolarmente vicino allo stesso Khamenei: un fattore che rafforza adesso ulteriormente gli ambienti dei falchi iraniani, soprattutto in vista delle elezioni parlamentari che si terranno a febbraio nella Repubblica Islamica. Ma non è tutto: perché Soleimani rappresentava anche una figura chiave nel processo di consolidamento dell’influenza geopolitica iraniana nello scacchiere mediorientale. E, sotto questo aspetto, svolgeva ruoli fondamentali in scenari come quello iracheno. E’ stato, in tal senso, un personaggio chiave nella repressione delle proteste anti-iraniane che si sono verificate in Iraq negli ultimi mesi. E’ chiaro dunque che, con la sua uccisione, gli Stati Uniti abbiano voluto conseguire una serie di obiettivi tra loro correlati: sferrare un duro colpo alle ambizioni geopolitiche di Teheran nell’area mediorientale e privare la Repubblica Islamica di uno dei suoi leader più carismatici. Un duplice schiaffo, insomma, alla politica interna ed estera dell’Iran.

Il punto sarà adesso capire quale sia tuttavia la strategia americana. L’uccisione di Soleimani porta con sé il rischio di un’escalation militare. Negli ultimi due anni, Donald Trump ha costantemente evitato un conflitto diretto con la Repubblica Islamica. Nonostante la linea dura sulle sanzioni, il presidente americano non ha mai fatto mistero di voler spingere gli iraniani a sedersi al tavolo delle trattative, per rinegoziare l’accordo sul nucleare del 2015. Trump ha infatti sempre criticato la politica estera interventista in Medio Oriente dei Bush e dei Clinton e – proprio per questo – nel 2016 promise di porre un freno alle cosiddette “guerre senza fine”. Nonostante le tensioni esplose negli ultimi giorni con l’Iran sulla questione dell’ambasciata americana a Baghdad, mercoledì scorso il presidente aveva ribadito di non volere una guerra con Teheran. Va da sé che, adesso, l’uccisione di Soleimani possa cambiare tutto. Se un’invasione via terra americana in stile guerra in Iraq sembra al momento scarsamente probabile, non sono escludibili attacchi militari mirati, soprattutto con l’utilizzo di droni. L’Iran, dal canto suo, potrebbe fare affidamento su azioni insurrezionali grazie alle organizzazioni paramilitari di cui dispone in aree come il Libano e l’Iraq. Senza poi dimenticare possibili attacchi cibernetici. Tra l’altro, uno stato conflittuale tra Washington e Teheran, avrebbe dei risvolti estesi. Non dimentichiamo infatti che, appena pochi giorni fa, si siano tenute delle esercitazioni navali congiunte tra Iran, Russia e Cina nel Golfo di Oman. Non a caso, Mosca ha definito l’uccisione di Soleimani “una mossa sconsiderata che porterà a un aumento della tensione nell’intera regione”. Più moderata la reazione della Cina, che ha invitato le parti ad “evitare escalation”. In tutto questo, non è affatto escludibile che proprio l’Iraq possa trasformarsi in territorio di scontro: il Dipartimento di Stato americano ha appena invitato i cittadini statunitensi ad abbandonare l’area, mentre la classe dirigente locale teme da settimane l’eventualità di questo scenario. Uno scenario quindi non così improbabile. L’incognita resta per ora sospesa sulle effettive intenzioni di Trump: l’uccisione di Soleimani vuole essere un estremo strumento di pressione per spingere la Repubblica Islamica a trattare oppure la Casa Bianca sta aprendo alla possibilità dello scontro militare? La risposta dipenderà molto da come il presidente riuscirà a gestire le pressioni interne.

La politica americana intanto si è divisa. I falchi repubblicani di Washington si dicono soddisfatti dell’accaduto. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha dichiarato: “Soleimani è direttamente responsabile dei piani passati e futuri per uccidere diplomatici statunitensi e membri del servizio americano in Iraq e in tutta la regione. Ma alcuni sono così accecati dall'odio per Trump che sostengono che abbia fatto qualcosa di scellerato.” Il senatore del South Carolina, Lindsey Graham, ha invece twittato: “Grazie, signor Presidente, per aver difeso l’America.” Una linea condivisa anche dal segretario di Stato, Mike Pompeo. Il Partito Democratico sembra trovarsi in maggiore difficoltà. Se molti suoi esponenti si mostrano concordi nel sostenere che Soleimani fosse un nemico dell’America, altrettanti non rinunciano comunque a criticare Trump. Il senatore del Connecticut, Chris Murphy, ha lamentato che l’azione sia avvenuta senza l’autorizzazione del Congresso, mentre l’ex vicepresidente americano, Joe Biden, ha sostenuto che Trump abbia lanciato un “candelotto di dinamite in una polveriera”. La senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, ha invece dichiarato che si debba “evitare una nuova costosa guerra”. E’ quindi chiaro che i candidati alla nomination democratica tenderanno ora ad accusare Trump di mettere a rischio la sua promessa di non voler avviare ulteriori “guerre senza fine”. Con il paradosso, tuttavia, che molti di questi candidati abbiano criticato aspramente il disimpegno militare dal Medio Oriente, promosso dal presidente negli ultimi mesi (soprattutto in Siria): segno di come, se alla Casa Bianca vige forse una certa confusione, la situazione tra i democratici non possa certo dirsi migliore.

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Stefano Graziosi