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L’accordo con l’Iran e l’eredità di Obama

L'intesa sul nucleare è una vittoria per il presidente. A Teheran la responsabilità di farne buon uso. L'incognita degli altri paesi mediorientali

Per Lookout news

Stavolta Barack Obama entra di diritto nella “hall of fame” degli uomini più influenti d’America, come del resto anela ogni presidente degli Stati Uniti prima di veder finire il proprio mandato.

È lui il vero protagonista dell’accordo con l’Iran, che appanna tutti gli altri diplomatici (a cominciare dal suo imbarazzante Segretario di Stato, John Kerry) e i Paesi del P5+1 che hanno contribuito a raggiungere il “big deal”.

Il colpo grosso di Obama, dopo due lunghi anni di negoziati, comincia il giorno stesso in cui a Teheran s’insedia Hassan Rouhani (eletto il 14 giugno 2013), inspiegabilmente definito sin dai suoi primi vagiti presidenziali, il “moderatore”. Segno che qualcosa a Teheran è cambiato e che la politica degli Ayatollah sta conoscendo un’inversione di rotta.

Da quell’elezione in poi, gli USA non vengono più dipinti come il “Grande Satana” e sull’Iran si spengono definitivamente i riflettori mediatici occidentali, che semplicemente non segnalano più violenze, impiccagioni e altre nefandezze che questo Paese va perpetrando (al pari di altri), semplicemente per convenienza politica.

L’Iran diventa improvvisamente un potenziale alleato e, anzi, col tempo viene persino additato come il possibile argine all’estremismo islamico e al divampare della Jihad in Siria e Iraq.

Al punto che Obama stesso, nell’ottobre del 2014, scrive di suo pugno una lettera all’Ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica, per delineare una road map sul conflitto nella regione.

Si può parlare di realpolitik in questo caso?
Certamente. Il presidente degli Stati Uniti non è un idealista, almeno non più da quando ha lasciato gli studi di diritto costituzionale a Chicago.
Ha le sue convinzioni ideologiche, certo, ma è l’uomo del compromesso (o della riluttanza) a tutti i costi, come ha già dimostrato proprio nel teatro siriano, dove ha atteso sino all’inverosimile prima di fermare un attacco militare che avrebbe trascinato gli USA in una nuova grande e forse inutile guerra. Del resto, lo slogan della sua prima campagna elettorale è impresso nella memoria di tutti: “Yes, we can”. Come a dire, tutto si può fare, anche un accordo con l’Iran.

E lui quell’accordo lo voleva. Perché era di buon senso, perché era naturale provarci, e perché può essere un buon accordo alla lunga. Ciò nonostante, la strada è ancora irta di pericoli e il numero uno della Casa Bianca lo sa bene.
Ma che altro poteva fare il presidente, dopo sette anni di alti e bassi e dopo aver perso il controllo del Congresso americano?

L’eredità storica di Obama
Il 44esimo presidente degli Stati Uniti vorrebbe lasciare in eredità la fotografia dell’America di questa mattina: un Paese energeticamente indipendente, con un’economia in crescita grazie anche agli sforzi dello Stato nel salvare l’industria pesante come quella automobilistica, e un esercito per la prima volta fuori dal pantano delle guerre in Paesi stranieri e lontani, grazie anche alla strategia - secondo alcuni scellerata - che sfrutta i droni e tutte le più innovative tecnologie partorite dagli scienziati del Pentagono, invece di mettere i “boots on the ground”.

Obama ha almeno tre medaglie al petto da appuntarsi in politica estera:
- la vendetta compiuta su Osama Bin Laden con la parallela sconfitta di Al Qaeda (molto efficace sull’opinione pubblica americana),
- l’inaspettata svolta diplomatica con Cuba,
- e da oggi anche l’accordo in via di definizione con l’Iran.

Per il resto, la sua Amministrazione è giunta all’ultimo giro presidenziale con una serie di cocenti sconfitte in politica interna: oltre ad aver perso il Congresso, ha visto una vittoria a metà sulla legge soprannominata "Obamacare", che ha dato copertura a 13 milioni di americani che prima non erano assicurati, ma che rischia di conoscere una sua cancellazione con il voto dei Repubblicani; e ha perso nettamente la battaglia per la legge sulle armi, dove la potente lobby della National Rifle Association ha convinto il Congresso a respingere i provvedimenti che volevano limitare l’acquisto indiscriminato di armi per gli americani.

L’accordo con l’Iran, secondo alcuni analisti, potrebbe dunque essere il suo “salvataggio in corner”.
Secondo Israele, è invece “la resa storica dell'Occidente all’asse del male guidato dall’Iran”. Vedremo. Di certo, per quanto attiene alla geopolitica, solo tra cinque o dieci anni sapremo se alcune delle scelte compiute oggi dagli Stati Uniti nello scacchiere mediorientale - non compromettersi, favorire gli sciiti e lasciare Iraq e Siria al loro destino - siano state lungimiranti. Così come sapremo se la scelta di dirigere i propri sforzi quasi esclusivamente in funzione anti-russa avrà pagato.

Il nemico di Obama
Già, perché l’accordo così fortemente voluto dalla Casa Bianca con l’Iran è anzitutto un modo per “scippare” quell’area geografica a Mosca, da oggi bersaglio quasi esclusivo di sanzioni economiche, dopo che quelle stesse sanzioni sono state tolte ai suoi più fedeli alleati, Cuba e Iran. Un accerchiamento ossessivo della Federazione Russa - aggressivo al punto da provocare una guerra civile in Ucraina - è oggi l’orizzonte geopolitico raggiunto da Barack Obama e la più difficile eredità che egli lascia al prossimo presidente.

All’accordo tra l'Iran e le altre potenze mondiali, tuttavia, manca la parola “fine”, dato che il Congresso repubblicano ha ancora 60 giorni di tempo per rivederne gli articoli e approvarlo in via definitiva, dando modo agli avversari politici di Barack Obama di scavare a fondo nei dettagli dell’intesa e minarne il buon esito.

Ciò nonostante, è ormai molto difficile che si devii dalla strada maestra. Il vero pericolo, infatti, non è mai stata la bomba atomica, poco più che uno specchietto per le allodole. Semmai, il vero pericolo è l’uso che farà Teheran degli esiti positivi dell’accordo, quando la sua economia ricomincerà a crescere a scapito degli altri Paesi del Golfo, concorrenziali sia in campo petrolifero sia in campo religioso e militare.

Con il tipico atteggiamento da primi della classe e dimenticando le provocazioni NATO ai confini orientali d’Europa, gli Stati Uniti di Barack Obama - convinti di avere sempre la ragione della storia dalla loro parte - consegnano così una gran parte delle responsabilità politiche alla comunità internazionale, nella convinzione che essa saprà farne buon uso. L’accordo è in sé un fatto positivo. Ma il Medio Oriente potrebbe non essere neanche lontanamente pronto per questa prova di maturità.

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Luciano Tirinnanzi