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MOHAMED EL-SHAHED/AFP/Getty Images
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Depistaggi e veleni contro Giulio Regeni

Superteste smentiti dai due coinquilini. E veleni contro il ricercatore italiano. L'inchiesta sulla morte del ricercatore è su un binario morto

C'è un corpo, di un giovane e brillante ricercatore italiano ritrovato in un fosso lo scorso 3 febbraio sull'autostrada che collega Il Cairo e Alessandria, con le vertebre rotte e con evidenti segni di tortura e di scosse elettriche. E c'è un inchiesta, condotta da otto investigatori italiani inviati dalla Farnesina all'indomani del ritrovamento del cadavere, che - non appena spunta un supertestimone che sembra dipanare qualche ombra - torna sempre al punto di partenza. Al buio fitto.

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Né registrazioni video lungo la strada che avrebbe percorso Giulio quella sera in cui è stato sequestrato. Né testimonianze attendibili, come quella consegnata qualche giorno fa all'ambasciata italiana da un vicino di casa di Giulio che ha sostenuto di averlo visto prelevare con la forza in strada da alcuni agenti egiziani quel maledetto 25 gennaio. 

L'inchiesta sul caso Regeni, in attesa che gli investigatori egiziani consegnino il dossier richiesto dai colleghi italiani, non fa alcun passo avanti. Anzi, ne fa uno indietro, dopo che i due coinquilini di Giulio - ascoltati ieri dal pool di inquirenti italiani - hanno smentito categoricamente il superteste che aveva parlato della visita di alcuni agenti egiziani nel palazzo dove viveva il ricercatore prima del rapimento. Punto e a capo.

Allo stato ci sono solo piste investigative basate sulla logica, non su circostanze fattuali. E veleni, molti veleni, contro la vittima ça va sans dire, come  accade quando ci sono di mezzo gli apparati segreti in un Paese sotto dittatura militare, attraversato da una guerra civile strisciante, dove le sparizioni sono all'ordine del giorno e le prenotazioni di soggiorni sono crollate quest'anno del 90%, specie dall'Italia.

I veleni sono quelli che hanno cominciato a circolare pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo del ricercatore. Giulio era un'agente segreto in incognita, hanno detto.

La prova? Il fatto, secondo qualcuno, che ha fornito nel 2013-2014 le sue consulenze per Oxford Analytica, un prestigioso think tank considerato vicino all'Mi5 britannico e fondato da David Young, ex collaboratore di Richard Nixon ai tempi del Watergate.

Non bastano, in questo caso, le smentite di tutti i professori che erano in contatto con lui a Cambridge, né le frasi inequivocabili dello stesso Young, né la specchiata biografia professionale e umana di questo ragazzo che frequentava ambienti dell'opposizione di sinistra in Egitto e aveva dedicato la vita allo studio dei movimenti sociali. Qualcuno, come lo storico inviato Marco Gregoretti, si spinge persino a sostenere, citando una fonte anonima, che «l'agente dell’Aise, (il servizio segreto italiano che si occupa di estero) Giulio Regeni» - scrive proprio così - è stato venduto ai servizi deviati egiziani per far saltare il canale di dialogo tra Al Sisi e il governo italiano.

Risuonano le parole dell'avvocato della famiglia Regeni: «Provare ad avvalorare l'ipotesi che Giulio fosse al servizio dell'intelligence significa offendere la memoria di un giovane universitario che aveva fatto della ricerca universitaria sul campo una legittima ambizione di studio e di vita». E riecheggiano anche - in attesa del dossier degli investigatori egiziani sui tabulati di Giulio - le parole di un investigatore italiano al Cairo dopo la smentita del superteste da parte dei due coinquilini del ricercatore. «Non ci aspettavamo nulla di diverso». Come se siano ormai tutti rassegnati a non sapere mai la verità, anche qualora Il Cairo dovesse consegnarci un colpevole esemplare.

Eppure quei segni sul corpo - le unghie strappate, le sosse elettriche, le vertebre spaccate, le torture - parlano chiaro: è stato un lavoro da professionisti, da gente abituata alle tecniche di interrogatorio più estreme. Sarebbe sbagliato sostenere che tutte le strade portano ad Al Sisi. Il generale   non ha nessun interesse a far eliminare un ricercatore italiano, soprattutto in questo momento, soprattutto alla vigilia della sigla di un contratto miliardario tra l'Egitto e l'Eni, soprattutto ora che è riuscito ad accreditarsi come l'uomo forte della guerra contro il terrorismo islamista nell'area.

Eppure tutte le strade, quello sì, portano agli agenti dei servizi di sicurezza egiziani, leali o deviati che fossero. E tutto quello che è accaduto dopo - i depistaggi, i veleni per infangare la vittima, i dietrofront dei testimoni - non farebbero altro che dimostrarlo. Così come quei segni sul corpo, marchio di fabbrica dei torturatori in servizio permanente.

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Paolo Papi