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Dario Fo, la "passione politica" regressiva

Da "fascista nero" a "fascista rosso", diceva Oriana Fallaci: l'anti-occidentalismo filo conduttore della militanza. Fino a Beppe Grillo

Nei ritratti di Dario Fo che riempiono i giornali dopo la sua morte, mi colpiscono non tanto i commenti sul nuovo concetto di letteratura che la sua arte ha saputo introdurre fino alla consacrazione del Premio Nobel, meritatissimo.

Mi colpisce anche il riferimento improprio alla “passione politica” che ha segnato la sua inesausta affabulazione teatrale.

Il Nobel però lo meritò
Solo una premessa, per sgombrare il campo da una delle polemiche ricorrenti: fu meritatissimo il Nobel.
La letteratura non è (non è solo) esercizio di maniera per pochi eletti, ma comunicazione di sentimenti, emozioni, riflessioni, visioni della vita, della morte, del mondo, capace di coinvolgere un pubblico e portarlo anche a riempire i teatri (tanto più in un’epoca nella quale i teatri si svuotano).

Eppure, al di là dell’ammirazione per la capacità di coinvolgere un numero impressionante di spettatori nel godimento di un testo letterario o teatrale, al di là della geniale creazione del Grammelot, lingua stupefacente tutta recitata in modo da lasciare senza fiato lo spettatore, con una gestualità e un trasporto corporale ben più che gigioneschi, al di là della grandezza di Fo come drammaturgo e attore, c’è una dimensione politica che chiama in causa la storia di un’Italia uscita da una guerra civile (già definirla guerra civile a lungo è apparsa una bestemmia fascista), la storia del Dopoguerra che attraverso la lunga stagione degli anni di piombo e del terrorismo ci ha condotti fin qui. Nel bene e nel male.

La "passione politica"
Nei ritratti di Fo, dicevo, non mi colpiscono le disquisizioni letterarie. Mi colpisce invece un’espressione più volte impiegata: “passione politica” di Fo.

L’uso dei vocaboli ha un senso, soprattutto scrivendo di un campione della lingua italiana come lui.

L'anti-occidentalismo
“Passione” ha un’accezione tutta positiva. C’è la passione sportiva. La passione d’amore. La passione per il cinema, la cultura, la scienza.

Ma la “passione politica” di Dario Fo è l’emblema di un’Italia che ha saputo distruggere se stessa, una “passione” estrema, una passione per gli estremismi con un filo conduttore: l’anti-occidentalismo.

A lungo Fo ha dato battaglia, anche in tribunale, per scrollarsi di dosso l’etichetta di fascista di Salò.
Aveva aderito alla Repubblica filo-nazista del Nord e fu un “repubblichino”, anzi una sentenza ha sancito che fu anche un “rastrellatore”.

Al punto che la solita, politicamente scorretta Oriana Fallaci, da sinistra,ne sottolineò la continuità da “fascista nero” a “fascista rosso”.

Negli anni di piombo, Fo e sua moglie Franca Rame furono l’anima di “Soccorso Rosso”, che diede aiuto a fior di terroristi e assassini in anni nei quali si uccideva sul serio, per quella che qualcuno, oggi, non si azzarderebbe a definire “passione politica”.

Grave fu anche la responsabilità culturale e politica di Fo e di tanti altri intellettuali allora per la maggiore, nella campagna di linciaggio e gogna mediatica (che passò anche attraverso le opere del Maestro) fino all’assassinio del Commissario Calabresi, o Commissario Cavalcioni con riferimento al davanzale dal quale era precipitato l’anarchico Pinelli.

Fo fu poi una delle guide e icone del ’68, di quella stagione di “passione politica” che determinò il declino dell’eccellenza italiana a partire dalla scuola e dall’Università, la fine del miracolo italiano ma anche una perdita collettiva di cultura.

E per cultura, qui, non intendo il rosario di singoli autori (letterari, teatrali…), ma la formazione di una nazione e delle sue giovani generazioni nelle diverse competenze che ne definiscono status e collocazione in un mondo sempre più globalizzato.

Il ’68 ha ucciso il merito, omicidio che ci ha condannati a una clamorosa perdita di competitività.

Ma, soprattutto, il filo conduttore che lega il Fo “repubblichino” e quello di estrema sinistra dei decenni successivi è l’anti-occidentalismo e antimperialismo, dalla parte sbagliata della storia e della cultura (nella sua accezione meno elitaria).
Le sue iperboli filo-palestinesi e contro israeliani e ebrei gli hanno valso accuse di antisionismo se non di antisemitismo.

La sua lettura - ricordata da Mattia Feltri sul La Stampa - della violenza dell’11 settembre come “figlia legittima della cultura della violenza, della fame e dello sfruttamento disumano”, il fiancheggiamento del complottismo insieme a un altro campione dell’antimperialismo e anti-occidentalismo come Giulietto Chiesa, anche lui sistematicamente dalla parte sbagliata della storia, sono il lato oscuro di una “passione politica” che lo ha portato a essere concretamente il guru di un mondo intransigente, estremista e violento.

Il che, ribadisco, non toglie nulla alla sua grandezza di artista, e non toglie alcun merito alla decisione di attribuirgli il Nobel.

Con Beppe Grillo
Infine, c’è lo scorcio di adesione pentastellata, che risale alle origini del movimento di Grillo e si inserisce nel solco “sinistro” di una tradizione contestatrice che nel tempo si è però molto affrancata dalla radice “rossa” di Fo, per assumere piuttosto una cifra di fondamentalismo rivoluzionario e giustizialista (pur con tutte le sue contraddizioni) senza colore.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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