Putin
(Ansa)
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Putin o dopo Putin, poco conta. La Russia si sente un impero con qualsiasi Zar

Molto analisti sperano nella cacciata del presidente russo. Ma dietro di lui o dopo di lui le cose non cambieranno, per una ragione di fondo molto chiara

Nessuno s’illuda. Vladimir Putin è ben saldo al suo posto, nonostante i partiti catastrofisti. E tuttavia l’esercizio di provare a immaginare chi possa sostituire il presidente russo è comprensibilmente sulla scrivania di molti uffici politici delle cancellerie occidentali, non meno che sui desk delle redazioni giornalistiche, ma più come speranza e aspettativa ottimistica dei suoi detrattori che non come prematuro coccodrillo.

Dalla Georgetown University di Washington al Bundeskanzleramt tedesco, dall’Eliseo allo Zhongnanhai cinese, i migliori analisti politici si esercitano da anni nel tentativo di interpretare i segnali provenienti dal sottobosco del Cremlino, dove non mancano generali inquieti e segnali di veri e propri oppositori allo zar, pronti a dargli il colpo ferale se la guerra d’Ucraina dovesse inabissare anzitempo il futuro della Russia.

Chi scrive non ha mai gradito accostare a Vladimir Putin la definizione di zar, ovvero «cesare». Ciò detto, per una volta vale forse la pena scomodare il titolo imperiale che la Russia ha usato dai tempi di Ivan il Terribile fino alla rivoluzione bolscevica, per inquadrare meglio la questione della successione al Cremlino. Sì, perché la Russia è da sempre un impero, e come tale il grande apparato dello Stato agisce e ragiona.

Non è una banalità, ma una sottolineatura importante per capire le meccaniche che sottendono a un avvicendamento così importante per le relazioni internazionali. Ancora oggi il motto più in voga al Cremlino è «il putinismo è qui per restare», anche se questa è chiaramente «un’autoipnosi che potrebbe smettere di funzionare senza l’uomo stesso», come ha ben detto Pavel K. Baev, esperto in relazioni Nato-Russia.

Se alcuni hanno creduto che il riluttante monarca sia stato costretto suo malgrado a guidare la Russia per resistere alla «tempesta nella sua casa di carte» per altri quindici anni (come noto, la nuova costituzione russa consente a Putin di rimanere al Cremlino sino al 2036), deve ricredersi.

Lo spavento della Rivoluzione arancione in Ucraina prima e Euromaidan dopo hanno lasciato una profonda impronta nella psiche collettiva della burocrazia russa, che teme l’anatema di chi preconizza un «potere di strada» che scacci il tiranno. La chiamano «decomposizione del regime» e l’hanno vissuta gli zar come i sovietici. Lo hanno messo in pratica i bolscevichi con lo zar Nicola II e lo vorrebbero rifare oggi i seguaci di Alexej Navalny (l’oppositore russo che ha prima subìto un avvelenamento e poi è stato incarcerato per attività sovversive) con il monarca Putin.

Ma non è così che si passa solitamente il potere in Russia: si tratta quasi sempre di lotte intestine. Partiamo dagli esempi che ha vissuto direttamente Vladimir Putin: nato sei mesi prima della morte di Joseph Stalin (il prossimo 7 ottobre compirà 70 anni), è stato immerso nella piena espansione dell’Unione Sovietica e ne ha dunque vissuto i fasti e le ritualità, incarnati dai vari segretari generali del Pcus (il Partito Comunista dell’Unione Sovietica).

In particolare, Putin ha avuto la possibilità di imparare molto da Yuri Andropov, segretario generale per soli 15 mesi ma a capo del Kgb per ben 15 anni. Anni durante i quali Putin ne ha ammirato lo spirito e il genio, considerandolo a posteriori uno dei «migliori» leader sovietici, un riformatore che riuscì a tenere la barra dritta dell’Urss quando ormai il suo declino era evidente. Al punto che, quando è diventato presidente, Putin ha preteso di ri-affiggere nel Palazzo della Lubyanka (quartier generale del Kgb) una targa commemorativa in ricordo di Andropov, che era stata rimossa dopo il crollo del muro.

Alla morte di Andropov per malattia, come noto, subentrò uno sbiadito burocrate di nome Kostantin Cernenko: a sua volta malato, il Politburo si vide costretto a falsificare la sua firma per poter continuare a operare. La morte di Cernenko un solo anno dopo essere salito al potere fu un trauma per chi credeva nel mito dell’Unione Sovietica: così forte come ideologia e così debole nella sua incarnazione. Il trauma fu rimosso in fretta e furia, al punto che i giornali sovietici uscirono con la notizia della morte di Cernenko e l’elezione di Gorbaciov nello stesso giorno. Il quale, come noto, darà il colpo ferale all’Unione Sovietica e al comunismo.

Questo racconta bene quanto l’Urss, come altri sistemi autoritari, non abbia mai adottato un sistema formale di successione che potesse garantire stabilità nella continuità. Ed è ciò che Putin teme più di ogni cosa. Quando Lenin morì per ictus nel 1924 ricopriva la carica di presidente del Consiglio dei commissari del popolo, ed era una sorta di premier; mentre Stalin era soltanto segretario generale, una carica pressoché amministrativa. Stalin però prese il potere piegando le regole a suo piacimento e guidò l’Urss con il pugno di ferro fino alla morte nel 1953. Solo per prassi, da allora in avanti, quella di segretario generale divenne la più alta carica dello Stato.

Oggi le cose sono ben diverse, e in Russia si tengono regolarmente le elezioni. Tuttavia, quel fantasma rimane. Anche perché, nonostante l’insofferenza per i metodi sempre più stalinisti che il presidente Putin ostenta di fronte al mondo, non c’è uomo o donna che siano pronti a sfidare lo zar. Il quale peraltro non si fida di nessuno e per questo si è trincerato da tempo in un bunker accessibile solo alla cerchia ristretta dei suoi fedelissimi.

Né è credibile un golpe senza che il presidente sia assassinato. Cosa peraltro non facile: vale la pena ricordare che Adolf Hitler subì 19 attentati, di cui 4 andarono vicino alla realizzazione. E nonostante tutto morì per mano propria. Anche qualora vi fosse un complotto di palazzo a Mosca, questo getterebbe la Russia nel caos e la esporrebbe a scenari inediti che non vogliamo neanche immaginare. Chi mai si sentirebbe di fare una cosa simile? Non certo un russo. Né si può liquidare l’idea di un avvelenamento del leader da far passare come malattia: Putin è nato e cresciuto nel Kgb e conosce fin troppo bene questi metodi tanto da evitarli accuratamente.

Fuori dalle ricostruzioni fantasiose, dunque, dopo Putin resterà il putinismo e non certo una restaurazione (di cosa poi? Lui è l’homo novus di Russia). Quindi, è lecito immaginare che egli stesso voglia designare un successore leale che garantisca la continuità del suo operato e il mantenimento della grandezza della Russia che egli ha inseguito per tutta la vita.

Così, che la guerra d’Ucraina sia o meno la tomba delle sue ambizioni, è lecito pensare che egli immagini per sé un futuro da «padre della patria» com’è stato per Nursultan Nazarbayev. L’anziano presidente del Kazakistan si è dimesso da capo di Stato, mantenendo il titolo di «leader della nazione» e un ruolo politico decisivo grazie ai suoi uomini. Questo schema non dispiace troppo a Putin né ai vertici del Cremlino, che in questo modo si garantirebbero una transizione indolore. Ma Vladimir Putin sogna di finire i suoi giorni da zar, e gli zar non condividono il potere con nessuno.

Inoltre, i vertici russi non sono superstiziosi, ma non amano nominare un successore prima della fine del mandato. Nello stile e nella consuetudine imperiale, è molto meglio aspettare che il leader muoia, e solo allora si fa iniziare la lotta. Anche perché i successori di Putin non vanno cercati chissà dove. La selezione della ristretta cerchia di persone che erediteranno la sua autorità è già stata compiuta: tutte sono già state messe da Putin stesso nelle posizioni-chiave del governo, pronte alla sostituzione in caso di bisogno. Shoigu, Gerasimov, Patrushev, Bortnikov, Naryshkin, Mishustin, Sobyanin, Medvedev e altri vecchi sodali del presidente siedono da tempo sul potere politico russo.

Ciò che vedremo accadere quando il sole di Putin tramonterà, sarà probabilmente una disfida tra uomini simili, gli unici che hanno l’autorità e i mezzi per gestire un potere immenso. Con buona pace anche dei ricchi oligarchi: per governare il Paese più grande del mondo i soldi non bastano, serve solo l’esperienza.

In edicola, questa settimana l’approfondimento “Dopo Putin” di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi.




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Luciano Tirinnanzi