Sleghiamo i "matti"
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Sleghiamo i "matti"

Non si può ma in molti ospedali alcuni pazienti psichiatrici vengono immobilizzati per ore, con tutti i rischi del caso

«Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi». Era il 1909 quando il Regio decreto n. 615 vietava la «contenzione meccanica» sui pazienti con disturbi psichici. Centodieci anni dopo la questione, invece di risolversi, è diventata emergenza. Il 13 agosto scorso Elena Casetto, 19 anni, brasiliana nata a Milano dal sorriso carioca e la pelle scura, muore bruciata nel reparto di psichiatria dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. I responsabili del nosocomio dicono che aveva appena tentato di impiccarsi con un lenzuolo. Tre infermieri l’hanno bloccata e tentato di calmarla. Ma nessuno aveva ancora formulato una diagnosi: era arrivata in reparto solo cinque giorni prima...

Elena ha un passato difficile, scrive belle poesie, ma nessuno sa quali ombre attraversino i suoi pensieri. Viene portata di peso al letto, immobilizzata, legata mani, piedi e torace alle sbarre. Si decide di sedarla. Poi, in attesa che il sedativo faccia effetto, gli infermieri escono e chiudono la porta a chiave. Elena è sola, agitata, immobilizzata. Ma riesce a muovere una mano e a usare un accendino che tiene nascosto addosso. Le fiamme attaccano il pigiama, le lenzuola e il materasso. Quando scatta l’allarme antincendio e l’infermiere va a vedere cosa succede è ormai tardi. Sono i vigili del fuoco, spente le fiamme, a trovare il suo corpo carbonizzato. Elena era caduta dal letto, forse nel tentativo di salvarsi. Una caviglia era ancora legata alla sbarra.

Le indagini sulle cause della morte sono affidate alla polizia e il pubblico ministero di Bergamo, Letizia Ruggeri, ha disposto perizie tecniche che a giorni arriveranno sul suo tavolo. L’Azienda sanitaria ha frettolosamente parlato di suicidio, ma se Elena avesse tentato di liberarsi dalle fasce di contenzione bruciandole? Al «Papa Giovanni XXIII» dicono che tutto era a norma, che il reparto era organizzato in modo esemplare, che nonostante fosse Ferragosto l’organico bastava per gestire i 30 posti letto di psichiatria. Col senno di poi, qualcuno dice che «se avessimo in dotazione maschere antigas come quelle dei pompieri, avremmo potuto salvarla».

«Non si può rispondere al dolore legando chi soffre» sottolinea Giovanna Del Giudice, psichiatra di fama internazionale, presidente della Conferenza permanente salute mentale e allieva di Franco Basaglia, il padre della Legge 180 del 1978 che prevedeva la chiusura dei manicomi. «Non studiamo per anni psichiatria e psicologia all’università per legare i pazienti. Oggi si parla solo delle morti per contenzione di cui veniamo a conoscenza, ma i decessi sono molti di più».

Secondo l’associazione «…E tu slegalo subito!», che ha chiesto in proposito un incontro al ministero della Sanità Roberto Speranza, il caso di Elena Casetto è solo l’ultimo decesso registrato nei servizi psichiatrici ospedalieri. Almeno altri due sarebbero le morti negli ultimi 14 mesi. Il 3 settembre 2018, a Sassari, è morto Paolo Agri, 30 anni, dopo essere stato legato mani e piedi per giorni. Il 23 dicembre 2018, invece è stata la volta di Agostino Pipia, 45 anni, deceduto dopo una contenzione all’Ospedale della «Santissima Trinità» di Cagliari. Insomma, in attesa delle conclusioni di indagini e delle sentenze, «di contenzione» in Italia si muore. E la pratica, sommersa e diffusamente utilizzata, non riguarda solo i pazienti psichiatrici, ma - come denuncia lo stesso Comitato nazionale per la bioetica della Presidenza del consiglio dei ministri - «anche i minori ricoverati in strutture per problemi di disabilità mentale o fisica e anziani degenti in ospedali o in strutture residenziali assistite».

Nel 2015, proprio il Comitato nazionale di bioetica si era espresso per il superamento della contenzione nei confronti di persone con problemi di salute mentale e degli anziani, come stabilito dalla Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità nel 2006, ratificata, ma solo sulla carta, dal governo italiano nel 2009. In molti Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) vi si ricorre spesso, invocando a sproposito gli stati di «necessità e urgenza» che ammettono la pratica di legare i pazienti ma solo come extrema ratio, quando cioè ci sia un grave, concreto e immediato pericolo per lo stesso malato, per altri ricoverati o per il personale dell’ospedale. Ma anche in quei rarissimi casi la contenzione è consentita solo per il tempo strettamente necessario e sotto costante monitoraggio sanitario. Eppure, se esistono anche strutture psichiatriche che hanno bandito la contenzione, significa che se ne potrebbe fare a meno. La professoressa Mara Tognetti, con l’OsMeSa, «Osservatorio e metodi per la salute» dell’Università Milano Bicocca, da anni studia il fenomeno. Ed è pessimista. «Registriamo un progressivo incremento del ricorso alla contenzione meccanica. Talvolta per fronteggiare il calo degli organici nelle strutture psichiatriche e l’aumento di pazienti, compresi gli anziani con demenza senile, per i quali la costrizione fisica diventa una vera pratica di cura». Per Tognetti c’è però anche un problema di sensibilità degli operatori che «ricorrono alla contenzione in modo improprio».Ossia illegale, contro la legge e la giurisprudenza.

La Cassazione, infatti, nel novembre 2018 è stata chiamata a decidere sulla vicenda processuale dei medici e degli infermieri coinvolti nel caso del maestro Franco Mastrogiovanni, morto nel 2009 nel presidio ospedaliero «San Luca» di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, dopo essere stato legato mani e piedi per 96 ore. Per i giudici della Suprema corte, che hanno condannato sei medici e undici infermieri, «l’uso della contenzione meccanica non ha finalità curative né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente, anzi può concretamente provocare lesioni anche gravi all’organismo».

Ma cosa ne pensano gli infermieri? Il loro codice deontologico, varato nel 2019, pur riconoscendo che «la contenzione non è un atto terapeutico», stabilisce che può essere attuata «anche dal solo infermiere se ricorrono i presupposti dello stato di necessità», perché «essendo un atto contenitivo e non terapeutico non è subordinato alla decisione del medico». Quindi si può legare un paziente, o un anziano, anche senza l’ordine e il controllo dello specialista. Ammette Nicola Draoli, consigliere della Federazione nazionale degli infermieri: «In Italia mancano dai 50 ai 70 mila infermieri su un organico di 450 mila e il rapporto tra personale e pazienti fissato dalle Regioni è sempre più sbilanciato. Il problema è anche culturale e di formazione».

Così, di fronte a difficoltà oggettive, capita che sia più semplice ricorrere alla contenzione. Del resto le Regioni dovrebbero destinare il 5 per cento della spesa sanitaria alla salute mentale; invece, quando va bene, si arriva al 3,5 per cento. Quasi inesistente, poi, l’attività dei presidi territoriali. Il 75 per cento delle prestazioni medico-sanitarie a pazienti psichiatrici viene erogata nei reparti ospedalieri e appena l’8 per cento negli ambulatori territoriali di salute mentale. Questi dati, estratti dal Rapporto salute mentale del ministero della Salute, raccontano quanto poco si faccia per intercettare precocemente i disturbi mentali. Che crescono e riguardano fasce di popolazione sempre più giovane.

Le cifre appena diffusi dalla Società italiana di psichiatria sono allarmanti: nel 2017 ci sono stati oltre 92 mila ricoveri e 600 mila accessi al pronto soccorso per patologie psichiatriche, la metà dei quali avrebbe dovuto essere trattata dai servizi territoriali. Di contro, il 10 per cento del corpo medico è andato in pensione e non è stato rimpiazzato: 600 erano psichiatri. Sempre secondo la Società italiana di psichiatria, i pazienti bisognosi di cure sono arrivati a 851 mila, in costante aumento per gli abusi di alcol e droga e i disturbi alimentari, e per i casi di migranti con disturbi cognitivi e di anziani con alterazioni comportamentali. Un esercito di persone che avrebbe bisogno di diagnosi e cure attente, invece diventano cronici e finiscono per ingolfare i reparti psichiatrici dove la contenzione viene talvolta praticata come alternativa a veri processi di cura. Come Elena, curata con le fasce e morta in ospedale. 

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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