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Il complesso di Nicola Zingaretti

La strategia del segretario del Pd è quella di sorridere sempre. Una strategia con un fine ben preciso

Ma che ci avrà sempre da ridere Nicola Zingaretti? Sta sempre lì con la faccia ridente e a tutti risponde con aria gioconda come se stesse alla sagra della porchetta di Ariccia. Non è un leader ma un emoticon, comunica con la faccina che sorride la contentezza di stare al governo col meraviglioso mondo dei Cinque stelle. Da quando guida il Pd e ancor più da quando ha incontrato l’anima gemella della sua vita politica, Luigino Di Maio, Zingaretti ha contratto una paresi facciale da sorriso permanente, gli occhi arricciati, le guance amene in uno sforzo maxillo-facciale, la bocca sempre allungata in un sorriso prestampato, le fossette scavate dal sorriso.

E poi la sua zeppola leggiadra, quando pronuncia la esse e la zeta: la lingua viene azionata come una specie di lavatrice e le parole vengono irrorate di saliva. È un piccolo difetto di pronuncia che gli esperti chiamano sigmatismo e la gente comune chiama «sputtazzella», perché rischia di innaffiare gli astanti. Ma rende ancora più ridente la sua presenza. Un sollazzo.

Per dirla col poeta: cosa lo fa parer sì giulivo? La spiegazione tecnica è che lui col sorriso ci lavora avendo un titolo di studio di odontotecnico; dunque si tratta di una deformazione professionale o di una promozione filo-dentale, tipo il mese della prevenzione.

La spiegazione psico-politica è che Zinga vuol cancellare l’immagine funesta della sinistra sempre imbronciata e arcigna, proverbialmente antipatica e altera, che ce l’ha contro il mondo e le sue ingiustizie assumendo la modalità «incazzato». Lui vuol dimostrare che si può essere allegri e di sinistra, venire dal comunismo ma andare al carnevale di Viareggio, sui carri allegorici del grillocomunismo; tassare la gente ma con buonumore, governare una calamità come la Regione Lazio e divertirsi un sacco.

Nella fase clown della politica italiana, dove il trasformismo ha raggiunto i picchi della pagliacciata, ridere significa stare al gioco e partecipare da protagonisti alla ludoterapia a cui sembra affidato il Paese. Se incontra un candidato, poi, come è capitato per esempio con l’umbro Vincenzo Bianconi, primo figlio naturale dell’amplesso grillo-sinistro e primo beneficiario dei fondi per il terremoto in Umbria, Zingaretti si sbellica dalle risate, lo abbraccia in un amplesso fino a trasformare due pelati in uno solo, e si sganascia come se stessero facendo un siparietto comico.

Nicola Ridens, in realtà, vuole esorcizzare un problema che si trascina dalla nascita: è sempre stato l’Altro, il fratello minore. A casa Zingaretti, ma anche per la gente, era e resta l’Altro, il fratello minore di Luca, il famoso Commissario Montalbano. A Roma, la sua immagine di governatore è secondaria rispetto a quella del sindaco, Virginia Raggi, di cui è stato per un paio d’anni l’Antagonista e di cui è diventato ora la Spalla, al punto che la gente ormai lo chiama Virginio Raggio. Nel Pd Zingaretti è stato l’altro rispetto a Matteo Renzi, e anche quando ha deciso di unirsi col nemico del giorno prima, i Cinque stelle, lo ha fatto seguendo a ruota Renzi, che ha tracciato la via su cui si è incamminato col suo Pd. Anche adesso Zingaretti fa da spalla a Di Maio, gli lascia il palcoscenico, lui viene interpellato come l’Altro nei tg, si limita solo a far commenti di rinforzo e a esprimere il sostegno della curva pidina alla panchina del trainer Conte e la sua squadra in campo. Secondi si nasce. Una vita da mediano. Ma dietro il sorriso si cela l’amaro del Capo.

Il problema, in realtà, non è Zingaretti che in fondo non è antipatico. Ma è una sinistra priva di linea, di carattere e di identità da trasformarsi in una specie di rimorchio dei Cinque stelle. Zinga si presenta come anello di congiunzione tra il Pd e i grillini, a dimostrazione che anche la teoria evoluzionista conosce un girone di ritorno. E non si limita a difendere l’alleanza strategica, nata solo dalla paura di Salvini e del voto anticipato; ma vuol far sapere al paese che coi grillini si sta che è una meraviglia, Conte è Bismarck subgarganico e Di Maio un piccolo genio partenopeo.

E tra Karl Marx e Beppe Grillo c’è una somiglianza non solo di barba ma ideologica...

Da parte sua Di Maio si tira la calzetta e non cede alle sue avance, non vuole apparire in pubblico con Zingaretti, non si fa fotografare con lui e frena le irruenze di Nicola Ridens che vorrebbe rendere stabile e palese il ménage pidino-grillino.

La sinistra resta la retrovia su cui è piantata la bandierina grillina, la forza a latere che detiene il potere ma lascia la ribalta alle ballerine cinquestelle, tipo Di Maio, Fioramonti, Fico, lo stesso Conte.

Qual è oggi l’immagine di governo della sinistra, il suo volto, il suo capo delegazione e il suo portavoce? Il Ragioniere di Stato Roberto Gualtieri, con la sua faccia da euroburocrate e i suoi ragionamenti da sinistra contabile? O Dario Franceschini che rappresenta più i mirmilloni ritrovati negli scavi di Pompei che i reperti archeologici della vecchia sinistra?

Non c’è oggi una leadership salda e riconosciuta a sinistra, come ai tempi di Veltroni e di D’Alema ma anche di Bersani e di Renzi. In Zingaretti il Pd vede un supplente, un surrogato, la rappresentazione pelata dell’intervallo, un nickname corale per indicare l’Anonima Dem. E lui stesso si nega come Capo, si barrica nel Collettivo. Per il resto la sinistra è una galassia di baronie scontente e di vecchi notabili disarcionati che danno consigli non graditi. Nessun leader guida il Partito e al posto del cartello «torno subito» hanno messo l’emoticon di Zingaretti, con la faccina ridente. 

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Marcello Veneziani