Detenuta Rebibbia tenta uccidere 2 figli,uno morto
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Carcere e bambini: perché quello che si fa non basta

Il caso della detenuta che ha ucciso i 2 figli a Rebibbia getta sale sulla ferita dei bimbi in prigione

"Ora almeno loro sono finalmente liberi". Lo ha detto Alice S., 33 anni, di nazionalità tedesca, detenuta da agosto presso il carcere di Rebibbia per essere stata colta in flagranza di reato con 14 chili di marijuana. Lo ha detto a proposito della morte dei suoi due figli, un bimbo di meno di due anni e una neonata. A ucciderli è stata lei, la madre Medea di questa tragedia greca drammaticamente contemporanea. 

La donna, interrogata dagli psichiatri del carcere, con fredda lucidità ha dichiarato: "Sapevo che era in programma l'udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati, adesso sono in Paradiso".

"Ora sono liberi"

Per questa donna donare la vita è stato meno importante che concedere la morte e piuttosto che trattenere i suoi figli, nati liberi, in prigione ha preferito ucciderli gettandoli dalle scale del nido carcerario in cui vivevano.

Per il gravissimo episodio il Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso la direttrice della sezione femminile del penitenziario e la sua vice responsabili di non aver fatto abbastanza per prevedere la tragedia.

La donna - si legge in un documento firmato dal capo del Dap, Francesco Basentini e riportato da Ansa "Era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli" e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato "La necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico". 

Ad appurare responsabilità ed eventuali omissioni ci penserà l'inchiesta giudiziaria già avviata, quel che resta alla fine di questa storia è il dramma sempre attuale dei bambini tra gli zero e i tre anni che, pur nati liberi, vivono i propri primi mille giorni da detenuti.

Bambini in carcere

I bimbi uccisi dalla madre, meno di due anni in due, dal 28 agosto alloggiavano all'interno del nido di Rebibbia, uno dei 15 asili nido che si trovano nelle sezioni femminili delle carceri italiane.

A Rebibbia il nido si trova in una sezione distaccata. Ogni cella ha una culla in legno per i bambini e in reparto ci sono una ludoteca e una piccola cucina. I bambini sono assistiti da pediatri e terapeuti e anche le madri sono sostenute dal supporto psicologico, o per lo meno dovrebbero esserlo, ma comunque sempre di carcere si parla.

In Italia al momento dietro le sbarre ci sono 62 bambini figli di 52 madri detenute.

La legge prevede che una donna madre di bimbi molto piccoli venga tutelata nel suo diritto a mantenere la genitorialità e per questo in Italia esistono 15 nidi all'interno delle strutture carcerarie.

Gli Icam

Molto meglio delle ludoteche dietro le sbarre, però, sarebbero di ICAM, istituti a custodia attenuata per madri. Il problema è che in tutto il territorio nazionale sono solo 5.

Si tratta di luoghi che assomigliano più a una casa che a un carcere (pur essendolo a tutti gli effetti) dove le madri sono sottoposte a una sorta di custodia domiciliare sotto tutela dell'istituzione carceraria. Pur non potendo uscire dagli ICAM e pur essendoci sbarre alle finestre e guardie fino a fine pena le madri possono condurre un'esistenza tutto sommato normale e i bambini vivono in maniera meno intensa il trauma del carcere. Il problema è che per gestire questi istituti servono fondi che non ci sono e quindi restano nel ridicolo numero di 5 su territorio nazionale.

Ci sarebbe anche l'opzione delle case famiglia protette, ma in questo caso va anche peggio visto che in Italia ce ne sono solo due. Mancano strutture, investimenti e soprattutto volontà politico istituzionale di costruirle.

Cosa dice la legge

Va precisato che una madre non ha l'obbligo di portare il figlio in carcere con sé, ma spesso coloro che scelgono questa opzione è perché sono sole al mondo e non saprebbero dove lasciare le proprie creature.

Si tratta di un problema non solo logistico, ma anche etico ed educativo a proposito del quale esiste un'ampia giurisprudenza e che coinvolge un intero nucleo famigliare che il carcere avrebbe il compito di rieducare alla vita. Il problema è capire come.

L'episodio di Rebibbia pone l'accento, tra l'altro, sul dramma della depressione tra le neo-madri già violenta per donne libere e ancora più drammatica con l'aggravante della prigione. Perché si tratta di donne che hanno problemi con la giustizia penale, ma che non perdono le prerogative genitoriali e lo Stato ha l'obbligo di preservare il diritto del minore a vivere con la propria madre.


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Barbara Massaro