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(Ansa)
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Fare business nello sport non è un peccato e salva lo sport stesso

Alessandro Giacomini, managing director Infront, racconta il lavoro quotidiano di chi deve trasformare lo sport in un prodotto vendibile

Lo sport, si sa, fa bene alla salute. Lo sport, si sa, è una delle cose più amate dagli italiani, e non solo dagli italiani. Ma lo sport è ormai soprattutto business, in particolare se si guarda al professionismo e alla televisione. Un business fondamentale dato che, di fatto, consente allo sport stesso di sopravvivere, come se si stesse autoalimentando. Lo sanno bene alla sede di Infront, società leader nello sport business, che grazie al suo know how nell’intermediazione dei diritti, nella produzione tv, nella gestione eventi è impegnata anche nella creazione di prodotti e progetti di marketing per Leghe, Federazioni, Club per ogni singolo sport.

«Noi siamo dei facilitatori… velocizziamo e aiutiamo a fare business - Alessandro Giacomini managing director Infront Italy - Non abbiamo un prodotto nostro, salvo qualche property come Hyrox, dove siamo soci maggioritari; così abbiamo dovuto reinventarci, convertendo i prodotti e proponendo un nuovo modelli di vendita, come quello dei diritti TV, che 15 anni fa è passato da singolo a collettivo, rivoluzionando il mercato. A noi, come società di sport business, non resta che investire in tecnologia e risorse umane per cercare di offrire un prodotto migliore».

Alessandro Giacomini, managing director Infront Italy

Qual’è lo sport che ha potenzialità maggiori dal vostro punto di vista commerciale?

«Il calcio continua a essere lo sport più redditizio, la Serie A ormai è un prodotto rodato ma la cosa più importante sono i servizi. Oggi abbiamo bisogno di ospitalità, di proporre attività extra sport all’interno del contesto stadio o palazzetto, di avere biglietti corporate, attività con gli sponsor. Cose che noi abbiamo portato anni fa (esordio a Parma, oltre 15 anni fa) e che ora stiamo cercando di implementare ovunque in ogni squadra. Anche perché è proprio in situazioni come queste, ludiche, che si stringono rapporti e, molto spesso si chiudono accordi e contratti. Non bisogna però dimenticare quelli che sono i tifosi normali, quelli della “curva”, tanto per dire, che sono la base e che non sparirà mai. Uno stadio con 40 mila Vip non ha senso e nemmeno futuro».

Come si organizza il lavoro di una azienda come Infront?

«Tutti gli anni noi cerchiamo di capire cosa fare per il prossimo anno. È un continuo pianificare; bisogna continuare ad avere una visione, ad evolversi quando le cose vanno bene e non perdere la testa quando arrivano i momenti di difficoltà. Il tutto in una fase storica in cui i linguaggi stanno cambiando. Basta pensare a quanto avviene nel calcio anche da noi. Ascolti ed abbonati sono in calo perché oggi l’attenzione della gente per 90 minuti davanti allo schermo non è più quella di prima…»

Soprattutto per i più giovani…

«La nuova generazione non c’è più perché mentre guarda la tv, sta facendo qualcos’altro, magari con lo smartphone. Siamo obbligati ad evolverci anche per tutti gli impegni ed i contratti internazionali che abbiamo sottoscritto. Dobbiamo quindi cercare di capire bene che posizionamento diamo e che prodotto vogliamo dare. Basti pensare alla scelta della Serie B che con l’ultimo bando ha deciso di rendere fruibile, immediatamente al termine di ogni partita la visione degli highlight sulla propria piattaforma perché forse oggi la gente ha poco tempo per cui vuole vedere subito in un minuto com’è andata la partita della propria squadra o dell’avversaria. E tutto questo lo possiamo fare sviluppando al meglio il lato digital e social».

Più rapidità ma anche più individualità, nel senso che ormai se si pensa ai fruitori bisogna cercare di essere il più «personale» possibile…

«Esatto. Dobbiamo cercare di conoscere al meglio con chi stiamo parlando: la squadra del cuore, se va allo stadio o al palazzetto o meno, se acquista merchandising della sua squadra o no… È una cosa complicata ma la tecnologia oggi c’è. E non solo sul lato media, anche nel marketing. Abbiamo introdotto da pochi anni la “virtualizzazione” ma stiamo puntando ad allargarla, paese per paese, non solo seguendo la suddivisione di 4 macro territori a livello internazionale attuale. Questo modello più capillare permetterebbe una maggior monetizzazione e un’esperienza più personalizzata per lo spettatore, con messaggi specifico per ciascun paese. Ci sarà poi anche una evoluzione per la pubblicità. Succederà, tra pochi anni, che come oggi l’algoritmo del nostro smartphone ci ripropone gli oggetti che abbiamo cercato, lo stesso accadrà anche con il televisore. Siamo quindi al massimo della customizzazione possibile».

In questo, l’intelligenza artificiale sarà un aiuto o un pericolo?

«Quello della IA è un tema globale, tocca tutti noi in qualsiasi settore. Abbiamo creato un team apposito per cercare di capire come sfruttarla a favore dello sport e delle nostre produzioni anche a livello educativo, di servizio per i tifosi e per il club stesso…».

Intelligenza artificiale è sicuramente importante, ma il fattore umano anche nel vostro lavoro resta fondamentale, penso ai telecronisti, ai registi…

«Ha perfettamente ragione. Ad esempio sugli sci abbiamo dei registi che sono davvero unici; persone che sanno, per lo più in mezzo a difficoltà atmosferiche, come raccontare una cosa che non è prevedibile. Bisogna quindi evitare che il prodotto sia “piatto”…E poi ci sono gli uomini sul campo: tecnici, chi cabla, chi installa reti, antenne, telecamere. Ci sono circa 50 tecnici oltre a altre 50 persone tra marketing, ticketing ed ospitality. Va bene quindi la tecnologia ma per fortuna c’è tanto, tantissimo fattore umano».

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Andrea Soglio