La più recente elaborazione di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) conferma una verità scomoda per il sistema sanitario italiano: il costo medio di una “giornata di degenza per acuti” varia in modo sostanziale da regione a regione — e molto spesso è più alto al Sud. Il divario è impressionante: mentre in alcune strutture del Nord, indicate come modelli di efficienza, la degenza pesa relativamente poco sulle risorse, in alcuni ospedali del Sud il costo per ricovero può raggiungere cifre da suite a cinque stelle. “Un valore elevato dell’indicatore – dice Agenas – viene valutato negativamente, in quanto rappresenta maggiori costi operativi connessi ad ogni giornata di degenza”. In concreto, ad esempio, l’Azienda Ospedaliera Universitaria L.Vanvitelli di Napoli, si è rivelata la “peggiore” d’Italia, e ha registrato un costo per giornata di degenza in acuzie, pesata per complessità, pari a circa 1.326 euro. Al contrario, il virtuosissimo Ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo raggiunge costi di “soli” 374 euro per la stessa tipologia di ricovero. Al secondo posto per spesa, dopo il Vanvitelli, troviamo il Policlinico Giaccone di Palermo (881,6 euro al giorno), seguito dal G. Martino di Messina (735,8 euro) e dal Renato Dulbecco di Catanzaro (727,8 euro). Tra gli ospedali non universitari il più costoso è l’Ospedale di Cosenza, che registra un costo medio di 827,6 euro. Seguono il Papardo di Messina (728,7 euro) e il Civico-Benfratelli di Palermo (728,1 euro). Tra i “migliori”, oltre al già citato Papa Giovanni XXIII troviamo il Moscati di Avellino e il Niguarda di Milano, oltre al San Matteo di Pavia e il Brotzu di Cagliari.
Emergenza-urgenza: attese infinite
Se la degenza dà un’idea di quanto “pesa” ogni giorno di cura, l’altra faccia della medaglia riguarda i tempi di attesa e la gestione dell’emergenza-urgenza. Anche qui i dati Agenas non lasciano spazio a molto ottimismo. Iniziamo col dire che, nel solo 2023, i Pronto Soccorso italiani hanno registrato circa 18,27 milioni di accessi. Di questi, una parte rilevante – secondo la letteratura medica citata da Agenas- riguarda codici “non urgenti”: si stima che circa il 73% delle visite in Pronto Soccorso servano a gestire condizioni a bassa priorità clinica, quindi codici verdi e bianchi. L’indicatore preso in esame da Agenas riguarda la “percentuale di accessi in Pronto Soccorso con tempi di attesa tra entrata e dimissione dal PS (e quindi anche ricovero, ndr) maggiore o uguale a otto ore”. Nella graduatoria delle performance critiche spicca il Pronto Soccorso del Policlinico Tor Vergata di Roma: dove un paziente su quattro (il 25 %) attende di più, prima di lasciare le barelle dell’emergenza-urgenza. Ovviamente, in generale per tutti gli ospedali (anche i più virtuosi), le attese, come ci ricordano spesso le cronache, possono arrivare anche a superare le 24-48 ore specialmente in determinati periodi dell’anno come per esempio quello del picco influenzale. Al Policlinico Giaccone di Palermo la percentuale di chi permane in reparto più di 8 ore è al 21,9%, agli Ospedali Riuniti Villa Sofia–Cervello, sempre nel capoluogo siciliano, è al 20,7%, al Cardarelli di Napoli al 20,4% . I più veloci a dimettere o a ricoverare sono. I più virtuosi sono il S. Carlo di Potenza e l’Ospedale di Perugia, il Renato Dulbecco di Catanzaro e l’Ospedale di Padova, tutti con percentuali sotto il 6%
In Pronto Soccorso sono troppi anche gli “abbandoni“
In Sicilia, sempre al PS degli Ospedali Riuniti Villa Sofia–Cervello di Palermo il 24,7 % degli utenti abbandona la struttura prima di ogni concludere l’iter di cura — un tasso che rivela la gravità delle attese e della pressione sui reparti. Anche l’Ospedale Dei Colli di Napoli appare tra i più in sofferenza, con un 23,1 % di abbandoni volontari al PS anche prima della visita. Al Centro-Nord, al Papa Giovanni XXIII di Bergamo gli abbandoni volontari si fermano al 9,9%, al S.Giovanni Addolorata di Roma al 9,3% e al San Camillo Forlanini siamo al 9,2%. Il Pronto Soccorso dell’Ospedale Niguarda di Milano registra un 5% di abbandoni e l’Ospedale di Perugia è al 4%. Il documento AGENAS mostra chiaramente che la rete dell’emergenza-urgenza è oggi sotto stress e profondamente disomogenea: in tante aree metropolitane e nel Mezzogiorno i PS sono al collasso. Anche tra gli ospedali universitari la situazione cambia molto da regione a regione. Il pronto soccorso con il tasso di abbandoni più preoccupante è ancora quello del Policlinico Giaccone di Palermo, dove gli abbandoni sono il 18,8% degli utenti. Seguono ancora Tor Vergata (Roma) con il 15,7% di pazienti che lasciano il presidio prima della visita e il G. Martino di Messina (13,3%). I più virtuosi per numero di abbandoni sono l’Ospedale di Padova (1,0%), il San Matteo di Pavia (1,2%) e Verona (1,9%).
Un problema di sistema–ospedale
Sarebbe però ingiusto e non corretto limitarci ad elencare migliori e peggiori e imputare la responsabilità degli abbandoni solo all’inefficienza dei reparti di emergenza: gli indicatori relativi all’abbandono, infatti esprimono significati diversi e denotano principalmente un utilizzo non appropriato del setting di cura, più che una insufficienza operativa del Pronto Soccorso. E’ un calderone dove finiscono realtà molto diverse tra loro: ci sono i pazienti che se ne vanno ancor prima della visita, e che sono di fatto nient’altro che accessi inappropriati; ci sono gli abbandoni durante l’iter di diagnosi e cura e ci sono i pazienti che rifiutano l’osservazione. È un insieme eterogeneo: chi si è recato in PS senza una reale urgenza se ne va appena si rende conto che non avrà subito ciò che si aspettava, magari la tac o gli esami che non è riuscito a ottenere per via di liste d’attesa troppo lunghe. C’è poi chi assume comportamenti opportunistici, e che dopo una certa mole di esami si tranquillizza – o viene tranquillizzato – sulle proprie condizioni e decide di andarsene. E c’è anche chi, pur avendo una giusta causa per rimanere, preferisce lasciare il pronto soccorso, solo perché sta meglio. Il fatto che il dato coinvolga in prevalenza PS del Sud correla con una maggiore inefficienza della medicina territoriale ed una maggiore difficoltà nell’accesso alle cure. Tradotto: spesso non trovando risposte adeguate dal medico di base o negli ambulatori, i cittadini si rivolgono al Pronto Soccorso anche per problemi estremamente banali che potrebbero essere facilmente risolti senza alcuna urgenza. Anche il dato relativo alle “attese”, dove si intende il tempo di permanenza in pronto soccorso prima del ricovero o della dimissione, è a sua volta ascrivibile, nel primo caso, alla disponibilità del posto letto o alla efficienza operativa del sistema-ospedale: relativamente ai servizi come diagnostica, consulenze e trasporti messi a disposizione dei PS nel secondo caso. I dati di Agenas e delle cronache non sono mero allarmismo: sono segnali di una crisi che tocca il diritto alla salute e l’effettiva possibilità di cura. Quando un paziente decide di lasciare il PS prima della visita o durante l’iter -come avviene con tassi superiori al 20–25 % in alcuni ospedali – non è quindi un problema individuale, ma un indicatore severo di fallimento sistemico. Tempi di attesa per un ricovero che superano le 8 ore, le 24 o persino le 48 ore riducono drasticamente la qualità dell’assistenza, aumentano il rischio clinico ed erodono la fiducia dei cittadini nel sistema pubblico. Le disuguaglianze tra strutture e territori, ma anche all’interno delle stesse aree metropolitane, mostrano che la «sanità pubblica uguale per tutti» resta troppo spesso una promessa, non una realtà. Per queste ragioni servono interventi urgenti e strutturali: rafforzamento del personale, potenziamento dell’assistenza territoriale (per evitare il ricorso del PS per problemi non urgenti), miglioramento della governance, trasparenza dei dati e controlli periodici. Solo così si potrà sperare che i problemi non siano solo denunciati, ma risolti.
Nei Pronto Soccorso di oggi l’attesa è cura. Spesso di eccellenza
Volendo però approfondire il concetto che Agenas definisce -in maniera riduttiva- “attesa”, occorre fare chiarezza. Non si deve infatti pensare che nelle (spesso) troppe ore in cui il paziente staziona in Pronto Soccorso venga semplicemente posteggiato in un angolo per -appunto- aspettare il suo destino di ricovero o di dimissione. Nei Pronto Soccorso di oggi, soprattutto nei DEA di II livello che sono punti di riferimento anche per le reti tempo dipendenti che trattano infarti e stroke (e che in Italia funzionano molto bene) il tempo di permanenza dei pazienti viene utilizzato per un grande lavoro di diagnosi e terapia, finalizzata a stabilire una dimissione sicura o un ricovero appropriato. E tutto questo, oggi, vista la riduzione dei posti letto è quanto mai necessario: se quindi un tempo il pronto soccorso era poco più di un centro di smistamento e di filtro, ora è diventato un posto dove si fanno diagnosi e cure di eccellenza. Significa che si pone in essere un’attività diagnostica che prima, quando c’era ampia disponibilità di posti letto, era appannaggio esclusivamente dei reparti specialistici, e che ora invece viene sempre più spesso svolta nei reparti di emergenza-urgenza, dove lavorano specialisti formati proprio per questa attività. Non darne conto sarebbe un errore, quantomeno di superficialità.
Alla fine, il pronto soccorso resta il luogo in cui il tempo assume forme diverse: minuti che pesano come ore prima della presa in carico, ore che si dilatano in osservazioni necessarie o solo prudenti, percorsi che si interrompono e altri che si compiono fino in fondo. È uno spazio sospeso, in bilico fra urgenza e sistema, fra ciò che dovrebbe esserci e ciò che realmente c’è. E dentro questo tempo imperfetto, fatto di scelte, incertezze, paura e responsabilità, si misura ogni giorno la distanza – spesso silenziosa – tra il bisogno di cura e la capacità di offrirla.
