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La cucina italiana corre verso l’UNESCO: la riscossa degli artigiani in cucina contro Michelin, delivery e falsi italiani

La cucina italiana corre verso l’UNESCO: la riscossa degli artigiani in cucina contro Michelin, delivery e falsi italiani

Il nostro cibo corre verso il riconoscimento Unesco, ma tra chiusure di ristoranti, qualità in calo e delivery dilagante nasce un movimento di chef che tornano alla tradizione e mettono da parte le stelle

L’Alfa è la finta salsa alla carbonara spacciata con tanto di tricolore al supermercato del Parlamento europeo a Bruxelles, un’evidente falsificazione dei nostri prodotti nel sancta sanctorum del politicamente corretto. L’Omega è la cerimonia di consegna con ricchi premi e cotillons delle nuove stelle Michelin a Parma, una settimana fa. Da cui si evince che il cosiddetto fine dining è fine a sé stesso. Nel mezzo ci stanno 195.670 ristoranti con l’aggiunta di 3.849 aziende di ristorazione collettiva che si occupano di sfamare gli italiani: dal banchetto al delivery con una crescita esponenziale delle dark kitchen, che sono il corrispettivo al sugo delle pompe bianche di benzina: non hanno marchio, si sa che producono pasti pronti da recapitare con un fattorino a chi li chiede. Sono esplose durante la reclusione forzata degli italiani a causa del Covid.

Ed è lecito domandarsi quanta distanza ci sia tra queste catene di montaggio alimentari e l’autoreferenzialità dei critici, degli sponsor, del bel mondo della cucina che si è ritrovato al Teatro Regio di Parma e che è perfettamente consapevole di vivere una finzione? Quasi nessuno dei ristoranti stellati starebbe in piedi se non ci fossero i banchetti, le collaborazioni, le consulenze, la pubblicità, le comparsate in televisione. L’alternativa è che i cuochi smettano di essere tali e si facciano imprenditori declinando l’offerta in tanti locali per andare incontro a dei target diversi. È il caso dello chef pluristellato Enrico Bartolini che ha una catena di ristoranti – così fan tutti a cominciare da Alain Ducasse -, di Antonino Cannavacciuolo, di Moreno Cedroni – che però non ha mai rinunciato alla ricerca gastronomica – e del gruppo Alajmo.

Se il fine dining non si alimentasse dello spettacolo della cucina non starebbe in piedi. Lo sanno benissimo i gestori della Michelin che con l’edizione 2025 hanno chiuso alla cucina tradizionale: premiano solo i “cuochi d’artificio” o quelli che hanno dietro le spalle degli investitori. Ed ecco perciò il grande quesito che nessuno in queste settimane ha il coraggio di porsi: esiste la cucina italiana? Anzi meglio: c’è ancora la cucina degli italiani visto che la nostra è una gastronomia vernacolare che dipende dai prodotti di territorio non avendo mai avuto piatti di corte per il semplice fatto che non avevamo fino al 1860 una casa regnante e unificante?

La domanda non è peregrina perché tra due settimane a Nuova Dehli si riunisce il comitato intergovernativo dell’Unesco che dovrebbe decretare – il  comitato tecnico si è già pronunciato per il sì – la cucina italiana Patrimonio immateriale dell’Unesco. Prima di noi hanno avuto questo riconoscimento francesi, coreani, giapponesi e messicani, ma è la prima volta che una cucina viene segnalata non per i piatti, ma per la cultura gastronomica che esprime. Il che significa ribadire – come ha spiegato il ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida – che molto si è battuto insieme sia con quello della Cultura, Alessandro Giuli, che con quello degli Esteri, Antonio Tajani, primo sponsor della settimana della cucina italiana nel mondo, per questo riconoscimento – che la nostra non è la cucina delle salsette alla francese, né della stagione dei Ferran Adrià con i sifoni e il credo del “todo es química”, ma è cucina “agricola”.

Alla Michelin non devono essersene accorti e il circo Barnum delle nostre pentole è troppo impegnato nell’autocelebrazione per domandarsi se togliendo l’ultima stella a Gianfranco Vissani si è ucciso nella culla il pronunciamento Unesco. Il cuoco di Baschi è forse l’ultimo testimone di quella rinascita gastronomica dell’Italia che è partita a fine anni Sessanta con Angelo Paracucchi, è passata per il Trigabolo di Argenta – non è un caso che nessuno dei magnifici cuochi del ristorante ferrarese oggi abbia una propria tavola: c’è chi come Bruno Barbieri vive di televisione e chi come Igles Corelli di consulenze -, si è sostanziata nella grandezza di Gualtiero Marchesi e oggi è dimenticata. La ragione? Chi non ha le stelle, non ha gli investitori alle spalle e per far quadrare i conti deve faticare, ha poco tempo per lo show e soprattutto è assediato da una concorrenza sovente scorretta: oggi per aprire un ristorante bastano dei forni a microonde e un fornitore giusto.

Su Internet si comprano tutti i piatti pronti che si vogliono. Una pasta e ceci in coccio (con tanto di contenitore) si paga 3,25 euro, una cacio e pepe viene via per 3,75 euro, la tagliata di manzo vale 6,40 euro. Sono monoporzioni: basta scaldarle e farle servire da ragazzi ingaggiati alla bisogna. Si chiamano ristoranti anche quelli. Una dimostrazione viene proprio dalle nuove stelle: le hanno date a chi non avendo nulla a che fare con la cultura gastronomica si può permettere il lusso non di andare al ristorante, ma di avere il ristorante dove ingaggia ottimamente pagato lo chef di successo, meglio se giovane e che fa una cucina non perfettamente italiana.

Tranne alcune lodevolissime eccezioni come i fratelli Cerea, Enrico e Roberto, che hanno fatto di Da Vittorio a Brusaporto una sorta di holding gastronomica dove si cucina la tradizione al massimo livello possibile e si realizza un fatturato che passa i 90 milioni coinvolgendo tutta la famiglia e avendo usato le tre stelle come motore di un business che va dalla produzione ai banchetti. Ma il resto del firmamento che piace tanto ai gastrofighetti batte in testa. Gli italiani non vogliono, o forse non possono, spendere. Al punto che oggi gli stellati costringono il cliente a ordinare almeno tre portate o il menù degustazione altrimenti non ci stanno dentro con i costi.

La torta che si spartisce il fuoricasa è di 96 miliardi, che sono meno di un terzo della spesa alimentare degli italiani e a gonfiare le entrate dei ristoranti sono gli stranieri che, soprattutto nelle città d’arte, vengono assediati o da uno street food spesso pacchiano o da locali tutti uguali: a Roma solo carbonara, a Firenze solo bistecche, a Venezia solo bigoli o cicchetti, a Napoli solo spaghetti “avvongole” e “pummarola n’coppa”. Risultato: spariscono dai menù i piatti di territorio e la qualità precipita. A cominciare dal servizio: l’80 per cento dei locali non trova camerieri e il turnover è vorticoso. Stipendi troppo bassi, turni massacranti, soprattutto nelle tavole turistiche che sono spacciatori di calorie piuttosto che ristoranti dove si fa orario continuato, scarsissima attenzione alla professionalità.

La dimostrazione che questa ristorazione non tira più sta nei numeri: manca il 61,7 per cento dei cuochi, il 58 per cento dei camerieri in un settore dove le assunzioni di difficile reperimento sono calcolate in 604 mila, con gli istituti alberghieri che non sfornano più di 35 milia diplomati (tra cucina e sala) all’anno. Del resto le paghe sono basse: i cuochi non prendono più di 1.800 euro, i camerieri non arrivano a 1.400 euro e sono tutti soggetti a contratti stagionali. Nonostante i prezzi siano lievitati: la ristorazione ha praticato aumenti medi del 3,6 per cento, ben al di sopra del tasso d’inflazione.

È per questo che si fa avanti una nuova ristorazione: quella degli agriturismi con cucina che sono 13 mila in Italia, ma soprattutto i cuochi artigiani. Sono i macellai, i casari, i panificatori, ma anche cuochi di tradizione che, stanchi di vedersi negata la possibilità di aprire la tavola perché devono essere per forza commercianti, hanno deciso di rivendicare la loro professionalità. Ci sono esempi illustrissimi come Dario Cecchini a Panzano in Chianti, come Luca Gambacorta che a Casco dell’Acqua, fra Trevi e Foligno, officia la griglia da consumato conoscitore della carne, come Peppe Zullo a Orsara di Puglia, Pietro Zito a Montegrosso (Barletta). E perfino il modenese Massimo Bottura, il profeta della cucina stellata, ha detto di sé: «Sono un artigiano ossessionato dalla qualità, per me la cucina è artigianato».

È nata così sei mesi fa a Verona la Cica-E che è la nuova Confederazione dei cuochi e artigiani con a capo Fabio Tacchella, che si affianca a un’altra iniziativa degli artigiani in cucina, quella di Sapereartigiano. Così come cresce il protagonismo gastronomico delle tavole di tradizione. È il ritorno della trattoria, intesa come scrigno della cucina degli italiani. Sapremo tra poco  se diventerà anche patrimonio dell’Unesco.

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