​Lino Banfi film Vecchie Canaglie
foto di: Luigi Sani
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Lino Banfi: «Non chiamatemi anziano»

L’attore pugliese racconta il suo ultimo film Vecchie Canaglie dove è un nonno arzillo e agguerrito che si ribella alla chiusura della sua casa di riposo. Nel dialogo con Panorama svela episodi inediti sulla sua vita: dagli imbarazzi delle comedie sexy (da felicemente sposato) all’amicizia con Alberto Sordi e Johnny Dorelli...

«Qualcuno mi ha proposto di fare il dizionario Italiano-Banfiota: un compendio di tutte le mie battute celebri. Quella che viene citata di più? “Ti spezzo la noce del capocollo”. Non vuol dire niente ma fa ridere, e io sono fiero di essere entrato con il mio linguaggio nei modi di dire della gente». Lino Banfi si gode quella popolarità che attraversa le generazioni regalatagli da quasi 60 anni di carriera, dagli esordi nell’avanspettacolo alle pellicole di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, passando per l’enorme successo delle commedie sexy anni Ottanta, la collaborazione con grandi registi come Steno e Dino Risi, le conduzioni e i tanti successi di film in tv, in cui si inseriscono i 18 anni di Un medico in famiglia. Nonostante i suoi 85 anni l’attore non pensa minimamente ad andare in pensione: «Ogni due o tre anni mi viene un’idea, forse perché a furia di tirarmi schiaffi sulla testa il cervello è ancora giovane». Ora arriva al cinema dal 5 maggio con Vecchie canaglie, commedia corale diretta e interpretata da Chiara Sani. «Racconta la storia» dice Banfi al telefono da Roma «di un gruppo di anziani (gli altri sono Andy Luotto, Pippo Santonastaso, Gino Cogliandro, ndr) che vivono in una casa di riposo, un po’ maltrattati dalla direzione e dal primario (Andrea Roncato). Quando vengono a sapere che la proprietaria (Chiara Sani) vuole vendere l’immobile per fare una speculazione edilizia e sbatterli fuori, decidono di ribellarsi. E il mio personaggio, Walter, un po’ più cattivo degli altri, decide di chiedere aiuto al figlio Renny (Greg) che campa di traffici loschi e, come dico nel film, vive una vita che assomiglia al nome della presidente dell’Unione Europea: borderline».

Il suo Walter è piuttosto incazzoso. Quanto le somiglia?

È vero che in vecchiaia si diventa più cattivi, anche se secondo me è stato il Covid a renderci tutti guardinghi nei confronti degli altri. Il personaggio l’ho fatto un po’ mio: anch’io a volte mi inchezzo, soprattutto quando do fiducia a una persona e poi questa viene tradita. Anche se non arrivo a dare in escandescenze. Il vantaggio di essere vecchi è che puoi fare qualsiasi battuta e ti viene perdonato tutto.

Nel film fanno parecchio ridere il suo personaggio e quello di Pippo Santonastaso.

Mi sono divertito molto a lavorare con Pippo, che è una persona dolce e con cui avevo già girato in tv Il vigile urbano. Mi ha anche stupito Greg, che non conoscevo, una persona squisita che sul set mi chiamava maestro.

A proposito di maestri, quali sono stati i suoi?

Sicuramente Alberto Sordi, con cui ho lavorato in Detenuto in attesa di giudizio. Vederlo recitare in quel film è stato come andare all’università. Siamo diventati amici e anni dopo mi prendeva in giro e mi chiamava a’ nonnè..., perché facevo nonno Libero in Un medico in famiglia. Lui che aveva 16 anni più di me!

Lei ha iniziato a recitare al cinema con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Che ricordi ne ha?

Da giovane ero amico di Ciccio, abitavamo vicini a Roma. E quando lui e Franco hanno iniziato a fare il cinema si sono ricordati di chi come loro aveva fatto l’avanspettacolo. Mi hanno chiamato, prima per una posa, poi per due e così via. Da Franco ho imparato i tempi, fondamentali per dire una battuta. Anche Ciccio però era un comico eccezionale, tanto che era difficile dire chi dei due fosse la spalla, come per Nino Taranto e Totò o per Totò e Peppino De Filippo.

E le commedie sexy che le diedero tanto successo?

Fu un bel periodo e io mi godevo la nomea di essere l’uomo che aveva toccato le donne più amate in Italia: Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Gloria Guida e molte altre.

Come faceva a mantenere il sangue freddo?

Facevo tutto con garbo, non lasciavo trasparire nessuna emozione e mi ha fatto piacere il rispetto che ho sempre avuto da parte loro, perché sapevano che le toccavo solo perché lo prevedeva il copione. Ero professionale, ma mi veniva facile perché ero molto innamorato di mia moglie Lucia. Però secondo me quei film aiutavano anche alcuni spettatori.

In che senso?

Se uno non era bello e si considerava sfortunato in amore, vedendo che uno come Banfi poteva conquistare donne così belle, si tirava su il morale. E poi capiva una cosa: che il primo potere di seduzione nei confronti di una donna è quello di farla ridere.

Ho rivisto di recente Dio li fa e poi li accoppia, in cui lei interpretava un omosessuale. In una scena c’è una coppia gay straniera e lei chiede come mai parlino italiano. Uno dei due risponde: «Parlo italiano perché Ricchione». E lei: «Anch’io Ricchione ma non parlo olandese!» E l’altro dice: «No, io ogni anno vado a Ricchione, Rimini…» L’equivoco fa ridere, ma oggi probabilmente quella battuta farebbe arrabbiare molte persone.

Penso che questa ossessione per la correttezza politica sia un po’ esagerata. Certo, le cose sono cambiate tantissimo, se pensa che io ho iniziato a esibirmi facendo le imitazioni di Nat King Cole e Louis Armstrong. Mi mettevo una calza nera in testa e sembravo ancora più brutto di quel che sono. Se uno facesse una cosa simile oggi lo massacrerebbero.

Che ricordi ha di quel film con Johnny Dorelli?

Ero orgoglioso di lavorare con Johnny e con Steno, il regista di film con Totò e Fabrizi, come lo sarei stato poi di girare Il commissario Lo Gatto con Dino Risi. Ricordo che chiesi a Steno e agli sceneggiatori di inserire una scena in cui mi confessavo da Dorelli e gli dicevo di volermi suicidare per il mal d’amore, chiedendogli di vestirmi da sposa nella cassa da morto. Quella pellicola ha 40 anni e penso fosse molto in anticipo sui tempi.

Quali sono gli altri film di cui va fiero?

Il primo da protagonista, Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia. La gente si domandò chi fosse quel comico che parlava quel dialetto strano. Ed ebbe un gran successo. E poi Vieni avanti cretino: con Salce mi trovai benissimo, era un attore anche lui. Piazzava la cinepresa e io andavo a ruota libera.

Un cult assoluto è L’allenatore nel pallone. Come mai ogni volta che passa in tv è un trionfo di ascolti?

Perché lo spettacolo del calcio è sempre molto attuale e le gag sono ancora fresche. Sembra un film girato ieri.

Che direbbe Oronzo Canà del calcio di oggi?

Che i moduli non sono interpretati bene e i mister sono troppo manager e troppo poco allenatori. Non c’è più quel rapporto tra allenatore e giocatore in cui il primo può dire: oh ragazzi, porca puttena, dovete giocare meglio!

Lei è romanista. Dica la verità: le piace Mourinho?

Sì perché quando si inchezza mi fa sempre ridere. E poi Mou è un’espressione del dialetto pugliese che vuol dire «adesso». Infatti a volte dico a mia moglie: Mou vieni qua, che ti abbraccio!

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Francesco D'Errico