Crisi incassi, cinema italiano da rifondare. Paolo Genovese: «Serve un linguaggio internazionale»
Paolo Genovese (Ansa/Riccardo Antimiani)
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Crisi incassi, cinema italiano da rifondare. Paolo Genovese: «Serve un linguaggio internazionale»

Con il regista di Perfetti sconosciuti cerchiamo di analizzare l’attuale crisi del botteghino, «che la pandemia ha solo accelerato». I due fattori per riportare il pubblico al cinema? «Qualità dei film e rendere la visione un’esperienza sensoriale. Anche se le sale saranno sempre meno». E i finanziamenti statali? «Giusto far esprimere tutti, ma che non siano a pioggia»

Non c’è stato il secondo Natale consecutivo con le sale cinematografiche chiuse causa Covid, Spider-Man: No Way Home ha riportato un po’ di vigore ai botteghini italiani con oltre 24 milioni di euro incassati e ora prova a fare altrettanto Animali fantastici 3, eppure i cinema stentano non poco a riprendersi dalla pandemia (peraltro ancora in corso).

Nel weekend prima di Pasqua (da giovedì 7 a domenica 10 aprile), segnato dall’esordio di Sonic 2, l’incasso è stato di 3.637.208 euro. Il confronto con il weekend pre-pasquale (da giovedì 11 a domenica 14 aprile) e pre-Covid del 2019, anno tra l’altro ridente per le sale italiane, è impietoso: 9.556.515 euro. Il calo è del 61,9%. Nel primo trimestre del 2022 sono stati venduti meno di 10 milioni di biglietti, il 62% in meno rispetto al 2019.

E i film italiani? Nella top ten degli incassi della stagione (secondo dati Cinetel) non sono pervenuti. Nell’anno solare, invece, al sesto posto c’è Me contro Te - Il film: Persi nel tempo degli youtuber palermitani idoli dei bambini Luigi Calagna e Sofia Scalia (3,5 milioni circa) e all'ottavoBelli ciao dei comici Pio e Amedeo (3 milioni circa): un’unghia sulla lavagna per i cinefili.

Una crisi degli incassi preoccupante. Ma siccome dalle crisi spesso nascono nuove opportunità, potrà essere l’occasione per il cinema italiano per ripensarsi e reinventarsi più accattivante? E magari di profilo più internazionale, riuscendo a varcare i confini patri e a superare i suoi limiti ombelico-centrici? La produzione italiana in anni recenti è stata ricchissima di uscite, dividendosi per lo più in un pullulare di commedie, spesso scontate, e in prodotti di nicchia per cinefili.

Ne abbiamo parlato con Paolo Genovese, regista che se ne intende di qualità che si sposa ai grandi numeri e di made in Italy esportato: nel 2016 Perfetti sconosciuti, la sua commedia sui segreti nascosti negli smartphone, David di Donatello al miglior film, incassò in Italia oltre 17 milioni di euro e fu venduto in 85 Paesi, con remake in Grecia, Spagna, Francia, Germania, Turchia, Messico, Polonia, Armenia, Giappone…
È autore anche di Immaturi, Una famiglia perfetta, Tutta colpa di Freud. L’ultimo film di Paolo Genovese, Supereroi, uscito a dicembre 2021, è caduto nella maglia degli incassi al ribasso da pandemia (663.340 euro), prima di essere distribuito su Amazon Prime.

Gli incassi al cinema sono ancora fiacchi. Il primo film italiano nella top ten del 2022 è Me contro te 3, dei due youtuber siciliani che traspongono sul grande schermo le loro storie web infantili… Può essere il momento giusto, per il cinema italiano, per reinventarsi?
«Sicuramente deve essere l’occasione per ripensare al cinema italiano inteso in termini di sala – ci risponde Genovese -. La crisi della sala secondo me era già cominciata, poi è arrivata la pandemia che si è sovrapposta e ha spostato un po’ l’attenzione. Ora si tende a dire che è stato il Covid ad allontanare dalla sala: è vero, ma il problema è sottostante, la pandemia è stata solo un incidente e forse un acceleratore, però sarebbe un errore considerarla l’unica colpa dei cali degli incassi, che sono pesantissimi, arriviamo al meno 70%. Quando avremo messo il Covid alle spalle e faremo i conti, credo che la quantità di spettatori che andrà in sala sarà notevolmente minore rispetto a prima. Non si tornerà più al passato. Ma è qualcosa che dobbiamo accettare, i tempi cambiano: sarebbe stato un errore non accettare la fine del dvd, la fine dei blockbuster intesi come negozi di videocassette, i vari stravolgimenti che l’industria del cinema ha avuto. Adesso c’è un proliferare di piattaforme digitali, Netflix, Sky, Amazon, Disney, che hanno portato un cambio di rotta al mercato. C’è un nuovo modo di fruire i film, soprattutto abbracciato dalle nuove generazioni, con il quale dobbiamo fare i conti. E non dobbiamo neanche demonizzarlo».

Piattaforme digitali, spesso viste dagli esercenti cinematografici come rivali…
«Le piattaforme hanno portato anche una quantità di lavoro incredibile. Il settore dell’audiovisivo è in piena occupazione, anzi, addirittura mancano risorse, cosa che non succedeva dagli anni ‘60. Questo boom si è spostato verso una forma di visione diversa, casalinga; ovviamente la pandemia ha aiutato perché ha abituato e avvicinato alle piattaforme persone che ci sarebbero arrivate magari con tempi più lunghi».

Il cinema in casa vince sul vero cinema visto in sala?
«Ormai si è insediata una visione casalinga fatta di un’offerta sempre più vasta, televisori sempre più grandi, probabilmente divani sempre più comodi, che ci porta a fare una selezione importantissima nella scelta di andare al cinema, per dedicare due ore in esclusiva a un film. Probabilmente noi autori dobbiamo fare i conti con ciò».

Le sale cinematografiche come possono contrastare questa tendenza?
«Probabilmente in futuro le sale saranno di meno e dovranno offrire un’esperienza unica. Quarant’anni fa si usciva per andare al cinema, punto: non era in discussione l’alternativa. Poi una volta usciti di casa si decideva che film andare a vedere. All’inizio del 2000, con l’arrivo del fenomeno delle serie tv e di un’offerta seriale massiccia, questa decisione cominciò a essere diversa, del tipo “vado al cinema, più o meno sì, però ho anche un’alternativa casalinga”. Adesso l’alternativa casalinga è fortissima, anche in relazione alla tipologia di prodotto perché la grande offerta di serialità, rispetto al film secco, tende a fidelizzare tantissimo lo spettatore, che quando sceglie di vedere una serie, se lo aggancia, per le serate successive è “bloccato” per un numero ics di puntate che continua a guardare. Quindi secondo me il cinema diventerà un’esperienza unica, importante. Andare al cinema non è più la scelta automatica ma diventa una scelta consapevole e ragionata».

E qual è la ricetta per attrarre il pubblico in sala?
«Secondo me la scelta di andare al cinema sarà dettata da due fattori. Il primo, e voglio sperare rimanga sempre il più importante, è la qualità del film: si va a vedere quel film in sala se veramente quel film lo si vuole vedere, senza aspettare per mesi che arrivi in televisione, magari perché il tema è importante, perché è il regista preferito, perché ha vinto dei premi, perché il cast è di interesse, per ics motivi che lo rendono unico. Diventa così è un piccolo evento. La qualità del film diventerà un elemento discriminante: gli autori dovranno guadagnarsi lo spettatore in sala, con molta più fatica rispetto a prima. Il secondo fattore, invece, dovrà essere la consapevolezza degli esercenti di rendere la visione, al di là del livello artistico che rimane il primo punto, anche un’esperienza sensoriale unica. Con il televisore a 50 pollici ormai nella casa di tutti non possiamo più avere piccoli schermi e proiezioni mediocri. L’adattamento della sala come schermo meraviglioso, audio avvolgente, poltrone super comode, sarà uno stimolo in più perché darà anche un’esperienza sensoriale diversa da quella che si può avere a casa. Mi è capitato ultimamente di andare in due multisale, una a Milano, una a Roma, completamente rinnovate, con super poltrone comode, addirittura con il pulsante che serve ad alzare il poggiapiedi, schermo avvolgente enorme, una distanza tra i posti che ti permette di non dover fare lo slalom tra le teste per vedere, con la sensazione che lo schermo sia tutto per te. Al di là del contenuto, ho fatto un’esperienza visiva emozionante. Quindi penso che nel futuro la sfida sarà questa: artistica, nei contenuti, e qualitativa nell’esercizio».

Perfetti sconosciuti è la dimostrazione che anche in Italia si può fare un prodotto che valica i confini e diventa un fenomeno internazionale. Qual è la strategia per un cinema che sappia andare oltre il proprio ombelico?
«Perfetti sconosciuti è stato un po’ un caso quindi è difficile parlare di strategia. Certo possiamo cercare di capire perché un film come Perfetti sconosciuti abbia avuto un tale riscontro. È stato un corto circuito: un film che aveva un tema molto toccante in quel momento, evidentemente trattato in maniera molto realistica e stimolante, la cui visione è stata un’esperienza personale di grande immedesimazione che portava chiunque, uscito dal cinema, a parlarne perché si sentiva fortemente rappresentato e a consigliarne la visione. Se vogliamo teorizzare quello che è successo a Perfetti sconosciuti, come quello che è successo a tanti piccoli film internazionali esplosi, come ad esempio Parasite, si tratta di storie con una forte marcatura nazionale, perché Perfetti sconosciuti è un film italiano a tutti gli effetti, Parasite è un film coreano a tutti gli effetti, che parlano però un linguaggio internazionale. Quindi forse oggi il film internazionale è proprio quello, non è il film che andiamo a fare all’estero, in Francia, in America, in lingua inglese, ma è la capacità di esportare, di parlare una lingua internazionale, di riuscire a fare prodotti che non siano più soltanto destinati al mercato locale, vista anche la possibilità di andare in piattaforma e di essere visti da 200 Paesi. Ed è quello che secondo me è successo a La casa di carta, che è spagnolo ma ha assolutamente un linguaggio internazionale che è piaciuto a tutti, o a Squid game, serie tv abbastanza assurda ma anche quella con un linguaggio comprensibile a tutti. La sfida è raccontare storie che possono interessare e capite ovunque».

Secondo dati Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinema), a fronte di oltre 900 produzioni approntate o in fase di completamento, al 99% finanziate dallo Stato, non più del 35% sembra destinato alle sale cinematografiche. È da ripensare anche il sistema dei finanziamenti statali, perché abbia interventi più chirurgici e meno a pioggia?
«Da un lato è vero che il sistema cinema deve essere un’industria, e deve quindi avere degli investitori che, come per qualunque prodotto, investono per avere un ritorno, e questo è assolutamente giusto. Però è anche vero che la varietà nell’arte, e in particolare nel cinema, è fondamentale, quindi non possiamo seguire soltanto una stretta logica commerciale. La logica delle piattaforme, che è commerciale, non può e non deve appiattire il mercato cinematografico. Da qui, secondo me, il ruolo importante e grande dei finanziamenti pubblici statali: mantenere in vita la varietà dei prodotti cinematografici, anche varietà di generi, e dare la possibilità di produrre film che non rispondano soltanto a criteri commerciali, ma anche a criteri puramente artistici. Non per forza il pubblico deve essere il grande pubblico. C’è anche un pubblico di nicchia. Ci sono anche generi più piccoli, di altissimo valore, che devono essere conservati e tutelati altrimenti si rischia l’appiattimento. Non possiamo essere un mercato che vende solo Nutella. Dobbiamo poter far esprimere tutti e questo vale soprattutto per i giovani, per le opere prime e seconde, perché laddove il mercato va verso un livellamento culturale anche le nuove leve pur di essere prodotte seguiranno questa tendenza. E qui secondo me lo Stato può intervenire con finanziamenti mirati. È ovvio che il finanziamento a pioggia non è mai ben visto. Finanziamento mirato significa invece la capacità di leggere le sceneggiature, di capire i progetti, di calarli in un contesto, di capirne le capacità artistiche, di farne comunque una valutazione. Non voglio dire che il finanziamento va dato comunque a chiunque, però lo svincolamento dalla logica commerciale nell’arte è doveroso».

Il suo meraviglioso cortometraggio degli esordi Piccole cose di valore non quantificabile, realizzato insieme a Luca Miniero e vincitore di Cortinametraggio 1999, è la dimostrazione che basta una piccola bella idea per creare qualcosa di grande.
«Questo lo dimostrano tanti meravigliosi film. Un’idea forte può essere completamente svincolata da un budget grande. Le idee sono sempre il punto di partenza. Le storie, le sceneggiature, sono il punto di partenza. Perfetti sconosciuti ne è un esempio: un film piccolo fatto tutto in una stanza. Le idee vanno coltivate».

Ha finito di girare il suo prossimo film Il primo giorno della mia vita, tratto dal suo stesso libro, con Toni Servillo, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, Sara Serraiocco. Parla di ciclicità e di rinascita, tema che si adatta a quello che stiamo vivendo.
«È un film scritto prima della pandemia, che curiosamente diventa molto attuale. È un film sulla forza, sulla voglia di ricominciare anche quando si tocca il fondo, sulla speranza di farcela. Mi sembra molto attuale».

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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