Gerry Scotti: «Tutte le volte che la vita ha deciso per me»
Ufficio Stampa Mediaset
Televisione

Gerry Scotti: «Tutte le volte che la vita ha deciso per me»

Intervista al conduttore che apre la nuova stagione di Canale 5 con Caduta Libera, da lunedì 29 agosto. Quarant'anni di tv, recordman di preserali, si racconta a cuore aperto: i successi, le amicizie, le radici, le passioni, Sanremo e il gossip Totti-Blasi

In oltre vent’anni di quiz, solo grazie ai preserali Gerry Scotti è entrato nelle case degli italiani almeno diecimila volte. Un monte ore impressionante, che dietro i freddi numeri dice molto di più e diventa un modo per raccontare e conoscere gli italiani e come sono cambiati. «Ci assomigliamo molto più di quanto vogliano farci credere», spiega il conduttore in questa lunga intervista a Panorama.it, in cui si racconta in maniera inedita alla vigilia del ritorno in tv. Lunedì 29 agosto aprirà infatti ufficialmente la nuova stagione di Canale 5 con il ritorno di Caduta libera, il game show coprodotto con Endemol Shine Italy in onda alle 18.45, che tocca il traguardo dell’undicesima stagione e quello delle mille puntate.

Gerry, riparte Caduta libera: undicesima stagione e una festa speciale per le prime mille puntate. Novità?

«Formula che vince non si cambia, ma ai consueti giochi se ne aggiungerà uno nuovo. A difendere il titolo di campione conquistato nell’ultima edizione tornerà Michele Marchesi, mentre la millesima puntata sarà una sfida tra i Super Campioni, quelli entrati nel cuore dei telespettatori».

Quando ha visto Caduta libera per la prima volta ha subito intuito la potenzialità del format?

«Sì. Anche se cominciò come una scommessa. Le prime puntate le abbiamo registrate a Barcellona e appena siamo rientrati in Italia mi dissero: “Ce ne servono subito altre 200”. Caduta libera sta nel tris di titoli forti del preserale che ho azzeccato, assieme a Passaparola e a Chi vuol essere milionario?, che considero il “muro di Berlino” dei quiz».

Il segreto per trasformarli in successi duraturi?

«La mia specialità è nazionalizzarli, farli miei. L’unico blindato era il Milionario, ma anche tra le pieghe della “bibbia” che ci consegnavano i titolari del format, escogitavo il modo di cucirmelo su misura. Mi piace trovare il linguaggio giusto per entrare nelle case degli italiani».

Il marchio di riconoscibilità di Gerry Scotti?

«La semplicità: sono come i piatti gustosi di quell’osteria dove non ti stanchi mai di ritornare. E l’aver fatto del sorriso la mia cifra: sorridere fa contrarre meno muscoli che restare seri e per me che sono pigro, è uno sforzo in meno».

In tv si mostra sempre sorridente anche se negli ultimi anni si commuove parecchio. Qual è il suo lato b, quello che il pubblico non conosce?

«Il lato malinconico, che in video faccio intravedere solo quando per qualche motivo mi commuovo. Non mi piace definirli momenti di tristezza, piuttosto di riflessione malinconica alla Ugo Foscolo, e sono quelli che riservo per me».

E cosa fa in quei momenti?

«Mi piacciono le giornate di nebbia, quelle uggiose. Prendo la macchina e vado al cimitero a trovare i miei genitori, passeggio tra le tombe, parlo con chi non c’è più. Poi vado davanti alle case dove stavano i miei nonni o i miei zii, nei bar che frequentavamo, tra le colline. È un modo per coltivare il ricordo e anche un po’ per innaffiare me stesso».

In vent’anni di preserali – un punto di osservazione speciale sulla società - cos’ha capito degli italiani?

«Entro nelle cucine e nei salotti, da Bolzano a Capo Passero, e vent’anni a tutti le latitudini sono parecchi per farsi un’idea: ho capito che ci assomigliamo molto più di quanto vogliano farci credere. Tutta questa diversità, quando mi fermano per strada, non la percepisco: siamo molto più simili di come ci descrivono e lo considero un punto di forza di cui andare fieri».

Lei che italiano si sente?

«Incarno forse l’italiano medio, con i suoi pregi e i suoi difetti. Sono la cartina di tornasole di un’Italia che è molto cambiata in questi quarant’anni: è peggiorata per certi versi, ma è anche molto migliorata. Purtroppo, i lati positivi vengono raccontati molto poco».

A cosa si riferisce, in particolare?

«Penso alla potenza trasversale di valori come la solidarietà. Da qualche tempo ho lanciato la mia etichetta di vini che realizzo con le Cantine Giorgi: a fine luglio un’alluvione ha travolto tutto, distruggendo i macchinari con due metri di fango. Per fortuna le vigne si sono salvate ed è scattata una catena di aiuto tra i produttori dell’Oltrepò pavese, che ringrazio pubblicamente: hanno rinunciato a una parte di capienza delle loro aziende per consentire a Giorgi di proseguire la vendemmia. La solidarietà è stata manna dal cielo: se aspetti i rimborsi dello Stato, perdi il lavoro di un anno».

Produrre vino è anche un modo per restare ancorato alle radici?

«Senza dubbio. Oltre che per coltivare una passione. Vivo d’altro ma sono orgoglioso delle mie 30/40 mila bottiglie l’anno e di essere finito in guide importanti. Dopo quattro anni, ho preso voti molto migliori che in tutta la mia carriera scolastica».

Lei è nato in provincia di Pavia ma è cresciuto a Milano. Della provincia cosa le è rimasto attaccato addosso?

«I piedi per terra, il valore dei legami, il senso del lavoro. Fino agli otto/dieci anni passavo l’estate lì: la vendemmia all’epoca avveniva a fine settembre o inizio ottobre e anche noi ragazzini davamo una mano. Quegli anni hanno lasciato un segno indelebile».

La sua madeleine?

«L’uovo sodo col sale, il profumo del camino acceso coi primi freddi dell’autunno. Ho fatto in tempo a vedere mia nonna inseguire le galline nell’aia. Per sapere com’è fatta una gallina, i miei nipoti dovranno probabilmente andare in gita in campagna».

È vero che diventa nonno per la seconda volta?

«Dopo Virginia, divento nonno bis. Lo posso ufficializzare per la prima volta ma se sarà maschio o femmina lo diranno mio figlio Edoardo e sua moglie Ginevra».

Lei da anni è per tutti lo zio Gerry: è una definizione in cui si riconosce?

«In generale non amo le etichette, ma zio ci sta: di solito è il parente con cui ti confidi, sa essere autorevole, ti strizza l’occhio al pranzo di Natale. A volte è più complice di un amico».

A proposito di amici: i suoi chi sono?

«Quelli dell’oratorio, delle scuole medie e del liceo. Pochi dell’università e dell’epoca della radio. Sono io che tengo le fila, ho creato un gruppo su WhatsApp in cui scriviamo spesso. Certo, i temi sono molto cambiati: una volta discutevamo su chi fosse il più playboy, oggi invece dei valori del colesterolo».

La chiamano Virginio o Gerry?

«Alcuni Virginio, altri Gerry, diminutivo che per altro mia madre detestava. Coltivare le amicizie di sempre mi aiuta a vivere bene. I miei amici sono impiegati, operai, agenti di commercio, disoccupati, tutte persone che mi conoscono profondamente e che non si fanno problemi a mandarmi a fanculo».

Giugno ’69, scuola media Tommaseo, Milano. Quella foto in bianco e nero che ha postato su Instagram cosa rappresenta?


«Un momento di svolta. Sono il ragazzino sopra il preside, magro e pieno di capelli. Era la fine della terza media e avevo deciso di iscrivermi al liceo classico. Una scelta vista con sospetto nella periferia operaia dove vivevamo. I colleghi di mio padre gli suggerivano di farmi fare una scuola professionale, altri dicevano: “Il nipote di un contadino che fa il classico? Ma va a lavurà”. Io mi ero messo in testa di fare qualcosa di diverso e i miei genitori lo hanno accettato, anche se ogni tanto mi guardavano come se fossi un oggetto strano».

Cosa sognava quel Virginio tredicenne?

«Di passare dalle rotative del Corriere della Sera, dove lavorava papà, al mitico primo piano di Via Solferino. Volevo fare il giornalista».

Poi s’iscrisse a Giurisprudenza e a due esami dalla laurea mollò tutto. Che avvocato sarebbe stato?

«Avendo ottenuto buoni voti e guardando la carriera dei miei amici, probabilmente un buon avvocato. Ma in realtà puntavo a diventare notaio. La vita però ha preso una curva inaspettata e ha deciso per me: finii in radio e poi in tv».

I suoi genitori la volevano laureato e non la presero bene: oggi cosa direbbero della sua carriera?

«All’inizio tennero il broncio, poi la curiosità prese il sopravvento, alla fine sorridevano. Sono cresciuti nelle case popolari, tra riunioni di cortile e solidarietà di pianerottolo: oggi avrebbero 95 e 92 anni e mi lasci immaginare che sarebbero molto contenti più dell’affetto della gente che delle soddisfazioni materiali che ho ottenuto».

Qual è la domanda che le fanno più spesso le persone quando la fermano per strada?

«Più che una domanda, un’affermazione: “Signor Gerry, è proprio come la vediamo in tv”. Forse riconoscono che non c’è differenza tra persona e personaggio».

Riconosce in altri colleghi questa dote?

«In Carlo Conti: frequentandoci, abbiamo scoperto di avere parecchie cose in comune. Ma sono molti, penso a Fiorello, Amadeus, sicuramente era così anche Fabrizio Frizzi».

Molti altri invece indossano la maschera appena si accende la telecamera…

«Ma sono troppo pigro per cadere in quel tranello: chi capisce che essere naturali costa meno fatica che essere artificiali, ha vinto».

Sta in tv da quarant’anni: quanto conta il talento, quanto la fortuna?

«La fortuna è fondamentale, il talento pure. Ma servono anche abnegazione e rispetto per il lavoro: se fossi diventato avvocato o pubblicitario – eventualità che ho sfiorato - ci avrei messo lo stesso impegno. E serve non sentirsi mai arrivati, è la spinta piacevole verso nuove sfide».

Una sfida che manca al suo curriculum?

«Girai la sit-com Io e mamma, con Delia Scala. Nel cast c’era anche Enzo Garinei, scomparso pochi giorni fa. Era un gentleman di altri tempi, un pozzo inesauribile di citazioni e consigli. È stato un onore conoscerlo e lavorare con lui. Anni dopo mi voleva a teatro… un sogno che non ho realizzato».

Rispetto ad altri personaggi, lei ha avuto una carriera lineare e senza stop. Come c’è riuscito?

«Non saprei. Non sono stato capo cannoniere tutti gli anni, ma gioco in Serie A da quarant’anni. Per usare un’altra metafora sportiva, non vinto lo slalom gigante né la discesa libera – perché di base sono un fifone – ma ho comunque portato a casa la combinata».

Nella sua combinata manca il Festival di Sanremo. Le piacerebbe condurlo?

«È un tipo di gara a cui francamente non ho pensato più di tanto».

Per febbraio 2023 ha già qualche impegno?

(ride) «Dovrei registrare Lo Show dei record. Ma se mi scrivono, mi tengo libero per una sera».

Prima ha citato Passaparola, un successo clamoroso. Perché non lo avete mai riproposto?

«È la stessa domanda che faccio ai dirigenti Mediaset durante gli incontri. Per me è un formato immortale, come dimostrano gli ascolti in Spagna: qualche sera fa ha fatto quasi il 26% di share, su Antena 3. Ci sono state delle difficoltà legali perché i detentori dei diritti della prima parte non sono gli stessi della coda, quella col famoso gioco della ruota. A suon di carte bollate non siamo mai riusciti a rimettere insieme il vaso rotto ed è un peccato: potrebbe essere il vaso più bello della mia collezione, anche rincollato».

Quel programma lanciò le Letterine: oggi, con il politicamente corretto, la massacrerebbero.

«Ma molto prima del politicamente corretto feci una scelta precisa: chiesi di non avere più vallette o figure femminili al mio fianco. Annusavo nell’aria che era finita un’epoca, che il ruolo della donna in tv era profondamente cambiato: so di aver deluso molti spettatori uomini, ma ogni cosa ha il suo tempo».

Tra di loro, Silvia Toffanin e Ilary Blasi hanno fatto una carriera clamorosa. Se lo sarebbe immaginato?

«Passaparola è stata una scuola importante per me e anche per le ragazze: notavo con la coda dell’occhio quelle che stavano più attente a ciò che facevo, chi era distratta, chi aveva in mente altro. Tra tutte le “scolarette”, Silvia e Ilary erano le più rispettose e attente: il loro successo è meritato».

Il gossip su Totti-Blasi tiene banco da mesi. Dica la verità: quanto la incuriosisce?

«Sono doppiamente curioso. Un giorno arrivai nel backstage di Passaparola e nell’ultimo tratto di corridoio buio che portava allo studio intravidi un ragazzotto seduto su un cubo, col cappello di lana calato in testa. Mi giro e gli dico: “E tu chi sei”. “Francesco”, mi rispose senza dirmi il cognome. Ovviamente riconobbi la voce. “E che ci fai qui?”. “Aspetto Ilary”. Ho vissuto la nascita della loro storia da fratello maggiore e speravo, come tutti, che il loro sogno durasse per sempre. Ma ci sono passato anch’io dal divorzio, so che significa quando la vita decide per noi».

Lei però ha tenuto la sua vita privata lontana dai riflettori.

«È stata una scelta naturale. Non me ne frega nulla della mondanità e nemmeno di mettere in piazza i fatti miei. Ho avuto una vita privata con alti e bassi, come tutti, ma ho fatto della continuità un punto di forza. Come nel lavoro, del resto».

Ci pensa mai a quando si spegnerà per l’ultima volta la telecamera?

«No, ma non sarà comunque un dramma. La mia carriera è un viaggio intercontinentale senza turbolenze: so solo che voglio scegliere io il momento giusto per l’atterraggio».

E come se lo immagina?

«Una volta, alla fine di volo per l’America, il pilota si è affacciato dalla cabina e ci ha annunciato che quello sarebbe stato il suo ultimo volo prima della pensione. Io l’atterraggio me lo immagino morbido e con un lungo applauso finale. Mi scioglierò la cravatta, sorseggerò un whiskey e con gli occhi lucidi come quel comandante, saluterò sorridendo il pubblico».

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Francesco Canino