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ANSA / MATTEO BAZZI
Economia

Lavoro, la crisi del bancario

Gli 8 mila esuberi annunciati da Unicredit hanno spaventato il mercato. Ma negli ultimi 10 anni sono già stati persi 52mila posti di lavoro nel settore

Chi accarezza il sogno della decrescita felice dovrebbe farsi un giretto, di questi tempi, nelle filiali delle banche. Che di felice non avranno molto, ma di decrescita, e in particolare di quella del personale, ne hanno parecchia. Basta pensare all’ultimo annuncio di Unicredit: il suo piano quadriennale prevede di tagliare entro il 2023 ottomila posti di lavoro sugli 84 mila del gruppo, di cui, secondo stime sindacali, 5.500 in Italia su 36 mila. Ovviamente non è una bella notizia ed è comprensibile l’ondata di critiche che ha sommerso il suo amministratore delegato Jean Pierre Mustier. Anche perché il piano prevede la distribuzione agli azionisti di circa 8 miliardi di euro, che agli occhi dei sindacati appare come uno schiaffo.

Ma a parte il fatto che in Unicredit non ci saranno veri licenziamenti e le uscite saranno gestite con il turnover, con pensionamenti anticipati (grazie anche a Quota 100) e con incentivi, e che il gruppo investirà 9,4 miliardi nell’innovazione e nella formazione, prima di mettere il manager francese alla gogna e di parlare di «macelleria sociale», occorrerebbe alzare gli occhi e guardare in quale mare stanno navigando le banche italiane.

E non è un bello spettacolo. Nel solo 2019 in tutto il mondo le aziende di credito hanno eliminato quasi 60 mila posti di lavoro. Un fenomeno che investe in particolare l’Europa: in Germania la Deutsche Bank intende liberarsi di 18 mila dipendenti entro il 2022, la Commerzbank ha annunciato un’ulteriore riduzione di 4.300 lavoratori, mentre anche gli istituti di credito di Spagna, Regno Unito e Francia stanno eliminando migliaia di posizioni. In Italia, non dimentichiamolo, negli ultimi dieci anni sono sparite 283 banche, sono state chiuse 8.632 filiali e sono stati cancellati 52.279 posti di lavoro. Nel 2017 anche Intesa Sanpaolo annunciò 9 mila esuberi entro il 2020.

Qual è il problema? Diciamo che si stanno sovrapponendo due tendenze: una, di lungo periodo, riguarda la diffusione di internet con il conseguente svuotamento delle filiali, visto che i clienti usano sempre di più gli smartphone e i giovani amano le nuove banche digitali senza sportelli; in più, in Europa la lunga agonia dei bassi tassi d’interesse e la stagnazione economica limitano la capacità degli istituti di fare profitti, aumentando così la pressione sui margini. Una situazione esplosiva che Chira Barua, partner londinese della società di consulenza McKinsey, ha riassunto nello slogan in stile 007 «do or die», agisci o muori. Barua sostiene che una grave recessione potrebbe essere catastrofica per un certo numero di banche se non si sapranno reinventare.

In Italia, secondo un rapporto realizzato dai consulenti della Oliver Wyman, siamo in presenza di  uno scenario che può «mettere seriamente in discussione la sostenibilità dell’attuale modello di business e la struttura stessa dell’industria bancaria». Per neutralizzare la compressione dei ricavi e mantenere la redditività del capitale ai livelli attuali, la Oliver Wyman sostiene che, «se dovessero intervenire soltanto sui costi, le banche italiane dovrebbero ridurli di circa 5 miliardi di euro, che corrispondono a circa 70 mila risorse e settemila filiali nel corso dei prossimi cinque anni. Per raggiungere un livello di remunerazione del capitale in linea con le altre banche europee (intorno all’8 per cento), la base costi dovrebbe essere ridotta di ulteriori 5 miliardi di euro».

«La ricetta  per adeguarsi al nuovo scenario naturalmente non si può basare solo sul taglio dei costi» avverte Giovanni Viani, partner della società di consulenza. «Un maggior dinamismo sui business a maggior crescita e redditività, la digitalizzazione di processi e servizi per migliorare il servizio ai clienti, una gestione più dinamica per avere un bilancio più snello ed efficiente, e infine il ripensamento completo del credito in ottica digitale e di Big data sono i pilastri della trasformazione necessaria per recuperare volumi e ricavi. E chi resterà indietro dovrà per forza ristrutturare o essere acquisito dalle banche di maggior successo».

Tornando ai tagli dell’Unicredit, può anche darsi che nella sua corsa a rimettere in ordine i conti dell’istituto, ridurre il gap rispetto a Intesa Sanpaolo e a conquistare la meta dei 4 miliardi di utili, Mustier abbia usato la mano pesante. Ma bisogna riconoscere che le banche si stanno impoverendo e richiedono meno personale di una volta. Alla fine è meglio avere banche sane, che offrono condizioni migliori alle piccole imprese e proteggono i risparmi, o istituti come il Monte dei Paschi assetati di soldi dei contribuenti? O peggio, falliti come la Popolare di Vicenza o in bilico come la Popolare di Bari? La verità è che avere la botte piena e la moglie ubriaca non è possibile. Neppure in banca. n

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Guido Fontanelli