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Economia

Crisi greca: le scuse tardive dell'Europa

Otto anni dopo, mentre la repubblica ellenica esce dal programma di aiuti provata e impoverita, piovono le autocritiche dei vertici Ue. "Abbiamo calpestato la dignità dei greci", ammette Juncker

Un sorrisetto sardonico verso Silvio Berlusconi e una coltellata a George Papandreou. Così Nicolas Sarkozy e Angela Merkel al vertice di Deauville in Normandia nell'ottobre 2010 hanno condannato la Grecia, scosso l'Italia e messo in pericolo l'euro.

Le autocritiche dei vertici Ue

Otto anni dopo, mentre la repubblica ellenica esce dal programma di aiuti provata e impoverita, piovono le autocritiche anche dai vertici della Unione europea e della Bce e vengono alla luce gli errori commessi allora, errori politici, non solo tecnici. "Non avevamo tenuto in conto il crollo della speranza e delle aspettative", ammette il portoghese Victor Constancio, ex numero due della Banca centrale europea.

"Alla Grecia abbiamo imposto misure estreme", sostiene Jeroen Dijsselbloem, già presidente dell'Eurogruppo. E il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker promette: "Abbiamo calpestato la dignità dei greci. Ora non dobbiamo fare lo stesso con l'Italia". Vedremo.

Secondo il presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, "nessuno è stato un angelo". Cominciamo dal peccato originario, così come lo ha descritto il capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, nel luglio di tre anni fa: 1. la medicina che la trojka ha fatto trangugiare ai greci "è servita solo ad aumentare il debito e ha preteso un aggiustamento (tagli e tasse, ndr.) fiscale eccessivo"; 2. gli aiuti finanziari "sono stato usati per ripagare le banche"; 3. "riforme strutturali che uccidono la crescita, insieme con l'austerità fiscale, hanno condotto a una depressione economica".

L'effetto recessivo delle misure europee

La numero uno del Fmi, Christine Lagarde, ha ammesso che il Fmi e la Ue avevano sottostimato l'effetto recessivo di alcune misure, gettando la colpa sul moltiplicatore fiscale, cioè la ricaduta della riduzione del bilancio pubblico sull'intera economia. In realtà, la denuncia partita dagli economisti di Blanchard venne presa per un'esercitazione accademica.

Intendiamoci, la Grecia ha le sue pesanti responsabilità. Nell'ottobre 2009 il socialista George Papandreou, appena vinte le elezioni, scoprì che il disavanzo pubblico era superiore al 12,7 per cento del Pil, almeno il doppio delle previsioni ufficiali (in realtà era al 15,4 secondo Eurostat). Il governo conservatore di Costas Karamanlis aveva imbrogliato tutti con l'aiuto della finanza creativa e delle banche d'affari che avevano fatto la cresta sui derivati.

L'Europa e gli Stati Uniti erano nel pieno della grande recessione. Irlanda e Portogallo avevano già chiesto aiuto al Fmi e Atene s'avviava sulla stessa strada. Ma, anziché prendere atto che la Grecia non avrebbe mai potuto far fronte ai propri debiti, la Commissione europea scelse interventi goccia a goccia, sostenuta dalla Germania e dalla Francia, nel timore di un contagio sistemico che avrebbe costretto tutti a pagarne il conto.

La tribolata istituzione del Fondo salva Stati

Nel maggio 2010 venne approvato un piano da 110 miliardi di euro che si rivelò presto insufficiente. I mercati si resero subito conto che il sistema dell'euro non era preparato a una crisi sistemica. Non bastava privilegiare il rientro delle banche, soprattutto tedesche e francesi, che avevano finanziato in modo del tutto scriteriato la bolla immobiliare, a cominciare dalle Olimpiadi 2004.
Senza una rete di salvataggio efficiente, l'euro era a rischio. Il 7 maggio i capi di Stato e di governo decisero l'istituzione del Fondo salva Stati, che però nacque con risorse insufficienti ed entrò in funzione solo dopo un macchinoso e lungo processo di ratifica. La Bce intervenne comprando titoli dei Paesi in difficoltà, ma fu un anestetico il cui effetto durò poco. E gli operatori finanziari andarono a nozze cominciando a vendere titoli italiani e spagnoli.

La Bce scrisse una lettera ai governi di Roma e Madrid chiedendo riforme strutturali. José Luis Zapatero la mise nel cassetto perché aveva già indetto elezioni anticipate per il 20 dicembre (fu sconfitto clamorosamente). In Italia scoppiò uno psicodramma politico in mezzo a continui attacchi al debito sovrano. Ai primi di novembre le banche italiane rimasero senza contanti. Il 16, Berlusconi si dimise. Quanto a Papandreou, aveva mollato cinque giorni prima.

La svolta di Mario Draghi

Ci volle la svolta di Mario Draghi a partire dalla primavera del 2012, ci volle il suo proclama di guerra del 26 luglio ("whatever it takes", faremo tutto quel che è necessario per difendere l'euro), ci vollero strumenti come il Meccanismo europeo di stabilità o il bazooka (mai utilizzato finora), cioè la possibilità della Bce di comprare direttamente titoli pubblici di un Paese a rischio crac. Ma c'è voluta anche la tragedia greca, con il piano B per uscire dall'euro preparato da Yannis Varoufakis, l'economista gauchiste diventato ministro delle Finanze.

Si arriva così alla ristrutturazione del debito dopo un quinquennio da incubo. Alexis Tsipras, il capo di Syriza nonché primo ministro, licenzia Varoufakis e indice un referendum per il 5 luglio 2015. Il 62 per cento degli elettori accetta le proposte della trojka. Ora la disoccupazione è al 19,5 per cento (era arrivata al 28), il debito pubblico è ancora al 180 per cento del Pil, quasi tutto (340 miliardi) nelle tasche della Bce, del Fmi, degli altri Stati europei, Italia compresa (40 miliardi); il Pil, crollato del 25 per cento, sta risalendo molto lentamente (si prevedono due punti percentuali in più).

Il calice è davvero amaro, i mea culpa non bastano se non sono accompagnati da una seria svolta politica nell'Ue. Intanto, chi torna dalle vacanze nelle isole dell'Egeo racconta che adesso tutti danno gli scontrini con tanto di fattura. 


(Articolo pubblicato sul n° 36 di Panorama in edicola dal 23 agosto 2018 con il titolo "Scuse tardive dell'Europa alla Grecia")


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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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