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ANSA/ TELENEWS
Economia

Alitalia: perché farla tornare pubblica è una follia

L’intervento dello stato scaricherebbe sui contribuenti un costo insopportabile senza risolvere il problema centrale: il piano industriale

Preso da follia aquilonare, il governo giallo-verde (in questo caso più giallo che verde perché i diretti interessati sono Luigi Di Maio e Danilo Toninelli) vuole il ritorno massiccio dello stato nell’industria e nei servizi.

Il primo banco di prova è l’Ilva (e vedremo se il tira e molla di questi giorni ha davvero come obiettivo di far saltare l’accordo con l’ArcelorMittal), poi tocca all’Alitalia. L’idea che bisogna tornare alla compagnia di bandiera, dunque nazionalizzarlaa spese del contribuente, esce dal contratto di governo per diventare opzione concreta.

Diciamo subito che sarebbe una follia, ma per evitare accuse di liberismo, globalismo, cosmopolitismo, intesa con lo straniero (insomma tutti gli epiteti considerati tra i più infamanti dal nuovo pensiero unico sovranista) partiamo da alcune domande concrete: in che condizioni si trova l’Alitalia? Davvero i commissari l’hanno rimessa in pista? Quanto ci è costata non in assoluto, ma in questi ultimi anni anni? E quanto costerebbe la nazionalizzazione?

I numeri del disastro

I commissari hanno fornito le cifre al parlamento. Dall'inizio della gestione di Etihad sono stati perduti: 199 milioni nel 2015; 492 nel 2016; circa 620 nel 2017. Il primo trimestre di quest’anno ha chiuso in rosso per 213 milioni. Anche se le cose andranno meglio, grazie al maggior traffico estivo, il 2018 chiuderà con una perdita che alcuni stimano attorno a 400 milioni. Ugo Arrigo ha calcolato 442 milioni, Andrea Giuricin è più pessimista perché secondo lui tra gennaio e maggio sono stati bruciati già 347 milioni. Insomma siamo vicini a 2 miliardi in quattro anni.

Ciò non esclude che i commissari guidati da Luigi Gubitosi si siano dati da fare nel gestire l’azienda, perché hanno ridotto del 40% la perdita netta. Tuttavia nel 2017 i ricavi sono ammontati a 2 miliardi e 945 milioni, mentre i costi operativi sono stati superiori (3,440 miliardi) e ad essi s’aggiungono gli interessi sul prestito ponte (40 miliardi).

Il primo semestre di quest’anno vede introiti per 1,399 miliardi ed esborsi per 1,630. Insomma, resta sempre negativo il margine operativo lordo che rappresenta l’indicatore chiave per stabilire la salute di ogni impresa. Lufthansa ha un margine lordo positivo sia pur piccolo (0,3% nel primo trimestre dell’anno), Air France KLM è sotto del 2%, Alitalia è a meno 28%.

I costi per sostenerla: miliardi

Questo è lo stato dell’arte e per rimettere in sesto Alitalia ci vorrà un bel pacco di quattrini, miliardi, non milioni, tenendo conto anche dei costi della ristrutturazione, soprattutto per quel che riguarda la gestione del personale. È chiaro che la compagnia si presenta debole, anzi debolissima sul mercato, tanto che nessuno dei pretendenti (in realtà l’unico ad aver dato segnali concreti resta Lufthansa) vuole comprare in blocco l’Alitalia. In un modo o nell’altro, tutti chiedono che l’onere del risanamento ricada anche sulle spalle del governo italiano.

Il problema: il piano industriale

Ma una cosa è sostenere le spese per la cassa integrazione straordinaria e la ricollocazione, tutt’altro è sobbarcarsi l’intero baraccone. Senza avere nessuna ragionevole garanzia di successo. Perché Alitalia ancor oggi soffre di una malattia non finanziaria, bensì industriale: non è (o non è più) il contratto dei piloti né le mille inefficienze che l’hanno resa per troppo tempo inaffidabile, ma è la sua taglia. Troppo piccola per competere con i colossi che si sono formati in questi anni e per contare su economie di scala e la conquista di nuovi mercati, troppo grande per giocare di sponda, occupare una nicchia a cavallo tra low cost e compagnia a lungo raggio.

La vendita sarebbe una svendita come dicono i grillini? Non necessariamente. Le compagnie intermedie finite nell’orbita delle grandi oggi vanno meglio (si pensi a Iberia con British Airways o Swissair con Lufthansa). Certo, più tempo passa meno forte l’Alitalia si presenta alla trattativa.

Le incognite ci sono ed è semplicistico dire che possiamo fare a meno di un trasporto aereo italiano. Ma la cosa certa è che l’intervento dello stato scarica sui contribuenti un costo insopportabile, e non risolve il problema centrale che non è contabile, ma, come abbiamo detto, industriale. Se il governo vuole ancora una volta sacrificare il calcolo razionale a traballanti ideologie stataliste e conservatrici, finirà come con il decreto dignità. E ancora una volta a pagare saranno quei cittadini dei quali ci si riempie tanto la bocca.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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