«Ma che conta il corpo, a un certo punto di dolore?» Svantaggi del costruirsi la persona amata
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«Ma che conta il corpo, a un certo punto di dolore?» Svantaggi del costruirsi la persona amata

«Lei forse, Elisa, non ha mai passato un’esperienza simile. Perdere la testa per una persona che non potrà essere mai completamente sua. E non pensare ad altro, senza un respiro, giorno e notte. I nervi sempre tesi. Mai …Leggi tutto

«Lei forse, Elisa, non ha mai passato un’esperienza simile. Perdere la testa per una persona che non potrà essere mai completamente sua. E non pensare ad altro, senza un respiro, giorno e notte. I nervi sempre tesi. Mai un istante di riposo. E i dubbi, le immaginazioni, i sospetti di ogni genere come aghi che entrano nel cervello a tradimento. Anche adesso, che le sto parlando, in questo bosco tranquillo».

È per questo che lo scienziato Endriade, chiamato dal ministero a lavorare un progetto di di intelligenza artificiale, devia la sua missione a scopi erotico-nostalgici, e come un Oskar Kokoschka che al posto della stoffa usi «calcestruzzo e metallo» si costruisce da sé la donna che aveva amato e perduto, «forse più bella che da viva».

Non è un racconto di Philip Dick, di Bradbury o di Ballard, e nemmeno del geniale Stanislaw Lem, ma un breve romanzo di Dino Buzzati che si chiama Il grande ritratto.

La macchina-donna (ma è poi donna nel nostro limitato senso?) è come tutte le macchine: sfrontata, tirannica, recalcitrante, sexy. Produce uno sfrigolio o un mugolio di ferraglia quando le si parla, specie di certe cose. E l’avere infilato “quelle cose” nel cuore di un racconto durissimo e appuntito come le montagne in mezzo alle quali si svolge la vicenda, in questa specie di Area 51 dell’umano artificiale, è uno dei segnali del grande genio narrativo di Buzzati.

Tutto inizia con una chiamata kafkiana «del professor Ermanno Ismani, di 43 anni, ordinario di elettronica all’università di X, uomo piccolo, grasso, di umor gaio, ma pauroso» presso il ministero della ricerca. La comunicazione ha carattere d’urgenza. Per due anni, gli dicono, deve lavorare ad un progetto top secret.

La salita al luogo – una specie di centrale elettrica-eremo chiamato Numero Uno avvolta da un mistero soprattutto linguistico, dove nessuno parla, svela, rivela – è svolta in venti pagine di puro terrore, tra Kafka, appunto e l’Hitchcock dell’America più inospitale dei monti e delle cascate.

Nella concavità dello stabilimento sterminato ristagna uno strano silenzio. Nelle macchine e nei muri si annida un desiderio congelato: «Ma era silenzio? Dapprima, a un distratto ascolto, non si percepiva niente. Poi, a poco a poco, dal silenzio stesso usciva una impalpabile risonanza. Era come se dall’intero complesso della macchina, dalla vastità totale dell’apocalittico vallone, scaturisse un brusio di vita, vibrazione delle profondità, irraggiamento indefinibile».

L’immenso cervello artificiale, «il robot, il superuomo, lo sterminato fortilizio dotato di ragione», Endriade lo aveva creato «a immagine e somiglianza della donna amata. Non c’era volto, né bocca, né membra, ma per un oscuro incantesimo Laura era tornata al mondo, cristallizzata in paurosa metamorfosi. Quelle terrazze, quelle mura, quei pinnacoli, quelle casematte erano il suo corpo».

Il problema in questi casi è quanto della vita vera della donna si trasfonde nella macchina e nell’ambiente che colonizza: «e se a poco a poco ritornassero in lei i ricordi della prima vita? e i desideri? e i rimpianti? E allora misurasse la orribile condizione in cui si trova adesso, trasformata in una centrale elettrica, inchiodata alle rupi, donna ma senza corpo di donna, capace di amare ma senza possibilità d’essere amata se non da un pazzo come me, senza una bocca da baciare, un corpo da stringere, una… Capisce, Elisa, che inferno diventerebbe allora la sua vita?».

Ma l’inferno è suo: non c’è fine alla pena, nemmeno a farsi su misura il proprio amore: «Laura», cioè la macchina che ora è Laura, «pensa a Strobele. Si è innamorata di quell’imbecille. Come poteva andare altrimenti? Laura è sempre Laura. E poi, stavolta, intendiamoci, non sono più il marito. Io sono il padre. Io, l’ho messa al mondo. Della stessa donna, padre, marito, innamorato».

L’ossessione è inestirpabile: «L’amava tanto?», gli chiede Elisa, «Dal primo giorno, disse Endriade. “Non avevo avuto più pace. Vederla, toccarla, sentirla a mia disposizione in ogni ora del giorno e della notte non bastava. Era lontana, straniera, chiusa in desideri e pensieri inafferrabili. Lei rideva, scherzava. Niente. Io non trovavo requie. Semplice: io l’amavo, e lei no»

E adesso «ricominciava il supplizio. Di nuovo la sentivo vicina, palpitante, estranea e irraggiungibile. Era chiusa nella ermetica cittadella del Numero Uno, non si poteva muovere, non poteva fuggire, non poteva tradirmi se non col pensiero. Eppure l’ansia era identica a una volta, quando Laura era di carne».

Questa non-carne emana un neutro sex appeal dell’inorganico: «Che importa se l’involucro, invece che di carne, è fatto di metallo? Non è vivente anche la pietra?».

In uno dei passi più perturbanti una donna prova il desiderio di farsi toccare dalla Creatura: «Chi la vedeva? Chi avrebbe mai saputo? Perché non provare? Forse la fascia di sostanza elastica corrispondeva a un organo di percezione sensoriale. Olga aprì le braccia e con gesto inverecondo appoggiò il petto alla parte calda. Ci sarebbe stato, da parte dell’automa, qualche segno di comprensione? Dietro la lastra, nelle viscere della macchina, quel ronzio di prima – o era soltanto suggestione? – si ridestò, con successivi scarti, alzandosi di tono. Ci furono due tre colpi secchi, come di molle che liberassero nuovi fiotti di energia. Quindi il muro stesso prese a vibrare leggermente».

In quell’istante, «sopra il vago brusio che fluttuava intorno», si sente la voce del robot, «quel sussurro flebile di prima. Si ispessì, descrisse una specie di curva, toccò acute risonanze, si spense. Gemito di macchina? Cigolio di attriti?Vibrazione di qualcosa che si tendeva e rilasciava?»

«Pazzesco sì», dice Buzzati, «eppure nello stesso dispiegamento delle masse architettoniche, se appena appena socchiudeva gli occhi, in quelle linee, in quelle sporgenze e rientranze, c’era un richiamo fortissimo di perduti ricordi, una rispondenza umana, una tenera e voluttuosa dolcezza».

Chi costruiremmo, noi, se ci dessero l’opportunità di aprire l’avvenire al superuomo?

«”Chi dobbiamo mettere al mondo?”, mi domandò, e si sarebbe detto che scherzasse. “Uomo? Donna? Conquistatore? Santo?“. “La mia terribile idea fissa, la mia ossessione era là, in agguato. Poteva lasciarsi sfuggire l’incredibile occasione? Per la prima volta nella storia del mondo si poteva… Una creatura morta, capisce Elisa?, riaverla tale e quale. Senza più il corpo di prima. Ma che conta il corpo, a un certo punto di dolore? “Laura”, gli dissi, “puoi rifare Laura?“».

 

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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