Emanuele Severino
Ansa/Ufficio Stampa
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L'ultima intervista a Emanuele Severino

Tra i più importanti filosofi del Novecento è morto oggi. L'avevamo incontrato a Brescia dove scrive e ragiona di morte ed eterno. Con le Nike ai piedi.

«Mi ritengo per origine un “bastardo”. Mio padre è nato in Sicilia mentre mia madre è nata a Brescia. Come tutti i bastardi penso di essere intelligente». Essere intelligenti è il dovere dei filosofi. «Ma anche io, a volte, vorrei dare risposte non intelligenti». E invece Emanuele Severino è costretto a essere un gigante, l’ultimo tra i grandi filosofi, è pensiero prima ancora di essere corpo e le sue opere non schiacciano solo noi ma, forse, anche un po’ lui. Pensando al peso gli guardo così le scarpe e mi accorgo che l’uomo che ha scritto “L’essenza del nichilismo” e che con i suoi azzardi ha sfidato addirittura la Chiesa, indossa delle Nike. «Me le hanno regalate. Sono comode. Mi piacciono».

Severino mi riceve nella sua casa di Brescia. Dice di svegliarsi presto ma di non alzarsi mai prima delle otto e che i pensieri che lo vengono a trovare, in quelle ore mattutine, sono ancora i più fecondi. «Il resto del giorno “lavoro” quelle idee, le sviluppo». Sono le sue epifanie? «Sono momenti luminosi e straordinari. Un altro momento è quello della rasatura». La pelle di Severino è infatti liscia e i suoi occhiali sono un bisogno ma soprattutto degli attrezzi. «In passato ho provato a farmi crescere la barba e il pizzetto». Poi? «Ho smesso. Mi figlia mi preferisce senza. La accontento». Oggi Severino ha 88 anni, («Ne faccio 89 a fine febbraio»), e giustamente i suoi allievi hanno iniziato a celebrarlo. «Il 2 e il 3 marzo, a Brescia, terranno un convegno su di me ed è nata perfino un’associazione, l’ASES, che studia i miei scritti. Ines Testoni, una mia allieva, ha ideato un master sul fine vita, che prende le mosse dalle mie opere. Si chiama Master in Death Studies & The End of Life». Severino si interroga sulla morte, eppure ride tanto. «Quando la malinconia diventa matura si trasforma in allegria».

Guidati da Vira, («Una donna straordinaria che si prende cura di me»), Severino invita a sedere nel salone di casa che è naturalmente circondato da libri e da collane di volumi importanti. Le copertine sono rosse e verdi e si arrampicano fino al soffitto, strette e fitte come fossero sassi di un muro a secco. Li ha letti tutti? «Li ho spilucchiati». Forse anche i libri andrebbero annusati prima di essere aperti. «Un buon libro si riconosce dalle prime venti pagine e se brutto necessario abbandonarlo». A volte sarebbe meglio non pubblicarlo. «E ancora meglio ritirarlo. Io l’ho fatto con un mio scritto». Ha mai tenuto il conto dei suoi libri? «Ho scritto tanto, ho scritto molto, continuo ancora». Severino annuncia l’uscita di un nuovo testo per Adelphi, uno per Rizzoli, tutti pensati nel suo studio che imbarazzato prova a tenere chiuso per non esibire la confusione del suo scrittoio, un presepe di carta e di oggetti. Mi offre un caffè ma dice di preferire il tè con il miele a colazione e rivela che fa degli esercizi fisici che, aggiunge, “alla mia età sono indispensabili”.

Non trova che i vecchi si stiano riprendendo l’Italia e che la vecchiaia sembra essere l’età più originale?

Il problema non è invecchiare, ma invecchiare male. Alla vecchiaia ci si adatta solo se non si diventa consumatori di poveri passatempi. Io continuo a insegnare Ontologia all’università Vita-Salute San Raffaele con l’aiuto dei miei allievi. Naturalmente mi muovo meno, rifiuto richieste di conferenze e incarichi pubblici.

Gliene hanno mai offerti?

Si, e li ho sempre declinati. Lo scrittore Guido Ceronetti aveva proposto di candidarmi come presidente della Repubblica. Ma mi piace star solo. Non so se sia una patologia o un vantaggio. Sto bene con me stesso.

Pascal diceva che “i mali del mondo derivavano dal non saper star seduti in una stanza”.

Mi trova d’accordo. A volte è giusto ripararsi dal mondo.

Brescia è il suo riparo?

È la città dove è nato l’amore tra mio padre e mia madre. Lui era comandante di caserma. Nato a Mineo, in provincia di Catania. Era vicino di casa dello scrittore Luigi Capuana. Un Natale decise di non tornare in Sicilia e il suo aiutante lo invitò a cena a Bovegno. Pensava di arrivarci in treno. Non conosceva queste montagne. Fu a quella cena che incontrò mia madre. Conservo ancora il quadrifoglio che si scambiarono.

Heidegger, raccontano, non voleva separarsi dalle sue montagne, dalla sua foresta e dalla sua panca. Anche lei preferisce le asprezze e le altezze?

Di sicuro la montagna mi appare più intima rispetto al mare. Ma ricordo che fu al mare che mia moglie mi spinse a partecipare al concorso per la cattedra universitaria. Aveva ragione. Vinsi.

Ha mai insegnato nelle scuole pubbliche?

Per alcuni mesi e ricordo che con gli alunni mi piaceva perdere tempo. Avevo bisogno di leggere i classici e non ho trovato miglior modo che farli leggere agli studenti. In pratica hanno letto per me.

Dove ha studiato?

A Brescia e poi a Pavia. Ero uno studente brillante e si è rilevato il segreto per conquistare mia moglie, Esterina, che è scomparsa nel 2009.

L’ha sedotta con la retorica o con lo spirito?

Con la curiosità. Era una delle studentesse più eccellenti del liceo “Arnaldo” di Brescia. Un enfant prodige. Io ero considerato bravo e studiavo al liceo “Arici”, sempre in città. Era il ’46 e ricordo che, in una giornata di estate, io e altri, ci presentammo con le biciclette sotto casa sua. Un’amica le chiese di scendere. Inizialmente rifiutò, poi si decise. Non aveva la bicicletta. Tra tutti gli studenti scelse me. Ho sempre pensato che lo abbia fatto proprio per curiosità. Si avvicinò e si sedette sulla canna della mia bicicletta. Partimmo. Anche oggi che ne parlo sento il profumo dei suoi capelli, ricordo il mio viso accanto al suo capo. Siamo stati insieme per più di 60 anni.

Lo racconta come un matrimonio più che felice.

Lo è stato. Si dice che dopo una vita lunga perdere la persona amata sia meno doloroso. Io credo il contrario. Quando un matrimonio ha retto per cosi tanto tempo, la perdita è ancora più straziante. Ricordo il condominio della sua casa. Il campanello. Mi capita di ripassare, di guardare l’edificio da dove è cominciato il nostro amore.

Le capita di cercarla nei libri che ha letto e nei vestiti che ha indossato?

Sempre. Riapro i libri che ha annotato. Cerco i suoi segni. Riprendo spesso la sua copia de “Alla Ricerca del tempo perduto” di Proust.

La aiuta?

Mi aiuta a ritrovare Esterina che per me si è sacrificata totalmente. Era lei che batteva i miei scritti, i miei articoli.

A macchina?

A macchina. Io dettavo e lei scriveva. Perfino quando era incinta di mio figlio Federico e nonostante soffrisse di nausea. Da una parte teneva la macchina da scrivere e dall’altra il vaso da notte per il vomito. Le idee erano mie ma le mani quattro.

La correggeva?

I suoi consigli mi erano preziosi soprattutto quando scrivevo gli articoli per i quotidiani. Mi chiedeva di essere più chiaro. Quando ragionavo di “eterno” e di “essere”, alzava lo sguardo e mi diceva: “Come vorrei che tutte le cose che pensi fossero vere”.

Immagino che Esterina sia il nome accorciato, una sua tenerezza.

Si chiamava Ester Violetta. Di cognome faceva Mascialino. È un cognome ebraico. Significa “Il messia”. A lei non piaceva il diminutivo “Esterina” e allora io le recitavo i versi di Eugenio Montale: “Esterina, i vent’anni ti minacciano/ grigiorosea nube/ tu intendi e non paventi”.

Umberto Saba scrisse una volta che tutto il suo “Canzoniere” non valeva le polpette di sua moglie.

L’amore tra due individui ha spessore quando è vero. Il nostro lo è stato. Per me, Esterina, ha rinunciato alla carriera universitaria. Era una eccellente glottologa. Sono stato molto fortunato. Oggi dopo, la scomparsa di mia moglie, un’altra donna, mia figlia Anna, professoressa anche lei, ha scelto di trascorrere alcuni giorni della settimana in mia compagnia. Per non lasciarmi solo si divide tra Ivrea, dove vive con il marito, e Brescia, dove abito io.

Dalle donne ha ricevuto molto.

Ed è un rimorso. Forse queste donne hanno fatto per me più di quanto io abbia fatto per loro.

Sua moglie era gelosa di lei?

Non era gelosa ma stava attenta a tutto quello che accadeva. Ero forse io geloso di lei. Era così bella che era impossibile non esserlo. Di lei mi mancano gli sbuffi. Non sbuffi di fastidio. Erano smorfie giocose, come quelle di una micia, di una gatta.

Riesce a dormire?

Abbastanza. Il lavoro mi aiuta. Riposo un po’ nel pomeriggio. La sera ascolto musica in televisione. Alcune reti sono eccezionali. Ho sempre amato la musica classica. È stata sin da giovane una mia passione. Componevo e compongo. Ho scritto ultimamente anche una suite per strumenti a fiato. Si chiama “Zirkus Suite”.

Cosa guarda in televisione?

Provo a guardare i programmi di informazione. Ma devo riconoscere che alcuni programmi delle reti locali sono più interessanti di quelli nazionali. Ad alcuni programmi di “La 7” preferisco la bresciana “Teletutto”.

In Italia, e in televisione, i filosofi anziché ragionare strepitano. Perché?

Sono validi filosofi. In televisione temono forse di far sbadigliare. È capitato anche a me di essere invitato in alcune trasmissioni e di avere l’impressione di annoiare. Ma ciò che più mi stupisce non sono le urla ma la sicurezza di alcuni commentatori, la sicumera che a volte è la stessa dei politici. Quanto sarebbe bello poter dire qualche “Non so”.

Una televisione del “Non so”?

Perché no. L’Italia ha bisogno di qualche “Non so” in più.

Andrà a votare alle prossime elezioni?

Non sono sicuro di andare a votare. Vedo con chiarezza la crisi della politica. Ci sono uomini che apprezzo. Paolo Gentiloni, Carlo Calenda sono alcuni.

Sono uomini silenziosi e discreti. Forse farebbero, appunto, sbadigliare.

Non è vero che agli italiani non piaccia la serietà. È semmai un popolo cinico. Il problema è che gli italiani vedono troppo avanti. Osservano in anticipo il disfacimento.

Si teme l’avanzata del Movimento 5 Stelle.

Non so se siano un pericolo, “suppongo” che lo sia. Ho ascoltato Luigi Di Maio. Parla in maniera non disprezzabile. Così come del resto anche Matteo Renzi, Giorgia Meloni. In questo paese si parla molto bene…

Anche la Meloni?

Non c’è dubbio che fra Matteo Salvini e la Meloni sceglierei la Meloni.

 Fra Trump e Putin?

A Trump rimproverano i suoi rapporti con la Russia che, invece, secondo me, sono un merito. Per quanto riguarda Putin credo che abbia dominato, in questi anni, lo scenario internazionale. C’è una sottovalutazione della Russia anche da parte nostra. Eppure, per ragioni storiche e geografiche, siamo più consentanei a loro che agli Usa. A proposito di Russia, mio figlio Federico, che è scultore, è stato invitato a esporre le sue opere dalla compagnia Gazprom. 18 sue formelle sono già esposte al Pantheon di Roma e a maggio verrà inaugurato un suo altare. Come artista ha sicuramente risentito il peso del cognome.

Negli anni ’60, per le sue tesi, la Chiesa l’ha considerata quasi un eretico e invitato a lasciare l’università Cattolica di Milano.

Fu uno scontro di puro intelletto. Ero dell’opinione che il cristianesimo fosse incompatibile con la Filosofia. Nel momento in cui formulai le mie idee sapevo che mi avrebbero portato all’uscita da quell’università. Ma avvenne tutto con il massimo rispetto.

La incuriosiscono i colloqui fra papa Francesco ed Eugenio Scalfari?

Francesco umanamente mi piace. Certo è curioso che questo papa si sia scelto come interlocutore Scalfari.

Ha scritto dell’avanzata della tecnica. Usa la tecnologia?

Uso Google. Ma per confermare le cose che so. Non utilizzo invece i social. Con il telefonino non riesco a scrivere messaggi. Però comprendo il senso generale dei social.

Anche lei crede come Umberto Eco che il web abbia scatenato gli imbecilli?

Credo che ci sia del buono ma anche molto ciarpame. I cretini come i non cretini. Mia figlia mi ha consigliato di non metterci piede. La ascolto.

Ama conversare al telefono?

Mi piace ancora farlo ma non ho persone a cui chiamo ogni giorno. Li annoierei. Anche io avrei noia di me stesso.

La spaventa la ferocia di questo tempo?

Mi ritengo un buono incapace di fare del male. Non mi spaventa il dolore, mi spaventa non poter prendere cura della mia persona. Che altri uomini debbano prendersi cura del nostro corpo lo ritengo inaccettabile. Ho già disposto come voglio morire. In casa, da solo. Cremato. Le ceneri insieme a quelle di mia moglie. Vede, l’uomo è molto di più di quello che si crede. Il terrore della morte è basato su un errore. L’uomo non sa pensare all’eterno. E invece lo è. La morte ci toglierà il terrore.

Ci ritroveremo?

Sicuramente. Tutti. Non so se le basti come risposta. Spero, tuttavia, nel corso della chiacchierata di averne dato delle intelligenti.

Ne dubita?

Dai filosofi ci si attende sempre pensieri elevati. Non so se questi lo siano.

Non ci crede?

“Non so …”










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Carmelo Caruso