Detroit: c'è arte fra le macerie
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Detroit: c'è arte fra le macerie

Un tempo raffinata e ricchissima grazie all'industria dell’auto, poi praticamente abbandonata e lasciata andare in pezzi, l'ex Parigi dell’Ovest prova a rinascere. Grazie a pittori e scultori che qui hanno trovato l’ispirazione e, soprattutto, spazi enormi a prezzi stracciati.

Da quando la crisi dell’industria automobilistica ne ha cambiato i connotati, "ruin porn" è un termine molto familiare a Detroit: indica il susseguirsi di case abbandonate, bruciate, crollate, che restituiscono lo spettacolo di una città bellissima e insieme indecente nella sua rovina. Detroit oggi conta 70 mila edifici abbandonati. La disoccupazione ha superato il 30 per cento e il tasso di pignoramenti è uno dei più alti d’America. Qualcosa, però, sta cambiando. "Questa sarà la nuova Berlino" ripetono per strada i ragazzi che credono nella rinascita culturale.

A polarizzare le energie c’è l’impegno del Detroit institute of arts, museo che da anni valorizza gli artisti locali. Ma soprattutto l’arrivo di un numero sempre più consistente di artisti che si stabiliscono qui attratti dalla possibilità di affittare a prezzi irrisori case e studi in immensi spazi industriali.

"Spero che la città non cambi, per la prima volta in tanti anni le riconosco una nuova energia, un cambiamento reale" racconta Scott Hocking, 37 anni. Ziggurat è uno dei suoi lavori più famosi: una piramide fatta con 6 mila blocchi di legno che ricoprivano il pavimento di una fabbrica dismessa alla periferia di Detroit. "Per otto mesi ho lavorato clandestinamente all’interno dello stabilimento". Con le stesse modalità clandestine ha lavorato nella Michigan Station, un colosso a 18 piani costruito nel 1932, oggi abbandonato e isolato in mezzo a un campo incolto, con il ponte verso il Canada alle spalle. "All’inizio ci entravo attraverso un tunnel, dove vive tuttora un senzatetto" racconta. Oggi che il lavoro di Hocking è stato riconosciuto, l’artista ha ricevuto le chiavi della stazione per lavorare in sicurezza.

Biba Bell, coreografa e ballerina californiana, invece, è arrivata da New York nel 2007. Il suo studio è in una gigantesca ex fabbrica a pochi chilometri dalla città. "A New York ogni spazio è tracciato, ogni metro quadrato è messo a profitto. A Detroit invece ci sono degli spazi urbani privi di pubblicità, di rumore. È un luogo dove ancora tutto è possibile" sostiene. "Ricorda la Soho degli anni 70, piena di arte e artisti, dove nessuno voleva andare a vivere ma di cui tutti parlavano".

Molti giovani della generazione di Scott e Biba sono cresciuti con il mito della Detroit degli anni 40-50, l’età dell’oro in cui la città era luccicante di teatri e jazz club, di Ford e Cadillac tirate a lucido, in cui aveva quasi 2 milioni di abitanti. Il declino è arrivato alla fine degli anni 60. I neri, in rivolta contro la segregazione razziale, misero a ferro e fuoco la città che divenne sempre più violenta e insicura. I bianchi abbandonarono il centro per trasferirsi in piccole cittadine satellite come Bloomfield Hills, dove è cresciuto Mitt Romney, sfidante di Barack Obama. Detroit in poco tempo divenne una città fantasma, gigantesca e vuota.

Cass avenue, una delle principali arterie cittadine, si allunga da nord a sud. Ai lati della strada, vecchie e un tempo deliziose villette di legno sfidano la forza di gravità in un equilibrio impossibile di stipiti sbilenchi e archi spezzati. Qualcuno ancora ci vive, alle finestre talvolta si intravedono volti scavati dalla miseria. Molti turisti vengono fino a qui unicamente per questo, per il "ruin porn tour".

Andando verso sud, Cass è tagliata perpendicolarmente da Bagley street. Qui le villette lasciano spazio a maestosi edifici déco che ricordano al mondo cosa sia stata Detroit. Al numero 220 di Bagley un garage multipiano cela il Michigan theatre, le cui volte dipinte si sfaldano ogni volta che una macchina viene messa in moto.

In questo terreno suggestivo e fertile per l’arte c’è anche chi ha scommesso sulle sue case. A dare la scossa è stato il miliardario Dan Gilbert, proprietario della Quicken Loans, quarta società di mutui immobiliari d’America. Nel 2010 ha investito 300 milioni di dollari per l’acquisto di spazi ufficio, ridando vita a edifici prestigiosi come il Madison Building o il Dime Building, oggi soprannominato Chrysler House, dove l’ad della Fiat Sergio Marchionne ha un suo studio. Nel tentativo di ripopolare il centro storico, Gilbert vi ha piazzato una dozzina di start-up dove oggi lavorano giovani di età compresa tra i 20 e i 30 anni.

Anche la Red Bull è giunta qui, investendo sui giovani artisti riuniti nella galleria Red Bull House e una volta l’anno organizza un grande opening per promuovere il loro lavoro.

Attratto dall’arte nata in questa terra così complessa, anche Luciano Benetton per arricchire la sua collezione d’arte e selezionare giovani artisti per un libro da pubblicare.

Non tutti però hanno lo stesso punto di vista ottimistico su Detroit. Heidi Ewing è una delle due filmmaker del documentario Detropia: "Per me" dice "Detroit è una cronaca degli Usa. Rappresenta il peggio e il meglio della società americana". Da queste parti il film non è stato digerito perché focalizzato sugli aspetti più drammatici della città. "Che sia o no la nuova Berlino" riflette Noah Chasin, storico e urbanista al Bard College di New York, "Detroit rappresenta un potenziale modello di rinascita cittadina da una posizione di quasi totale fallimento. Lo sta facendo sperimentando nuove forme di cooperazione, un esempio è la Soup, cena mensile organizzata per discutere e finanziare progetti di arte collettiva".

Forse tutto questo non basterà a salvare la città da decenni di declino, dalla povertà surreale e dalla delinquenza che alligna nelle periferie, ma nell’aria si respira tutta l’energia di una metropoli che, come recita lo slogan impresso su alcune magliette prodotte in loco, "Hustles harder", cioè ci va giù dura. Una frase che racchiude la voglia di combattere e racconta una città mordace che non vuole morire più.

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Paola Camillo