Da quando Claudio Ranieri ha deciso di correre al capezzale di una Roma inguaiata per le scelte sbagliate dei Friedkin e dei dirigenti del club, la squadra giallorossa corre al ritmo di quelle che si contendono lo scudetto. Un miracolo per il 73enne tecnico chiamato per paura che la stagione potesse avvitarsi in maniera pericolosa, dopo l’esonero di Daniele De Rossi che aveva incendiato la piazza e la breve e poco fruttuosa parentesi di Ivan Juric.
La Roma ereditata a metà novembre da Ranieri era 12° in classifica, più vicina alla zona retrocessione che a quella che porta alle coppe europee. Aveva uno spogliatoio di separati in casa, anche di peso per carriera e stipendio, un clima intorno da resa dei conti con l’Olimpico in contestazione e una società alle prese con diversi regolamenti di conti interni. Lo scenario perfetto per rischiare di precipitare senza trovare mai un punto di caduta.
Ranieri ha cambiato la storia fino ad arrivare al punto in cui molti si chiedono perché a giugno debba lasciare la panchina a un successore, per quanto identificato anche attraverso la sua collaborazione. E’ il quadro disegnato a novembre e a oggi non sono previsti cambiamenti anche se la tentazione di pensare che CR possa proseguire è forte mettendo in fila numeri e storie.
Partiamo dai primi. Nelle 15 giornate di campionato vissute da allenatore, Ranieri ha raccolto 30 punti sui 45 disponibili viaggiando alla media di 2 a gara che è perfetta, se tenuta per tutto il campionato, per centrare comodamente la zona Champions League. Nello stesso arco di tempo, però, la Roma ha fatto molto di più perché un ritmo superiore sono riusciti ad averlo solo l’Inter (33 punti) e il Napoli (31) con l’Atalanta appaiata a quota 30.
Tutte le altre hanno performato peggio: Bologna (29), Udinese (26), Lazio e Juventus (25 ma i bianconeri hanno una gara in meno) e Milan (23), Fiorentina (20) restando alle migliori o alle big. Terzo virtuale in un segmento che assomiglia a un intero girone, nel quale ha dovuto correggere gli errori ereditati, scontato qualche passo falso inatteso come nella trasferta a Como e poi fatto decollare la sua creatura.
Ha rimesso i top player al centro del progetto, liberato Dybala dalla pesantezza delle questioni contrattuali, restituito Hummel – finalista della scorsa Champions League – alla titolarità dopo mesi di panchine, valorizzato Paredes che è pur sempre un campione del mondo, dato gerarchie precise in attacco e un’identità riconoscibile in campo. Insomma, ha fatto cose di buon senso e grande semplicità perché alla fine il calcio è semplice e le situazioni più ingrovigliate si aggiustano partendo dalle fondamenta, con buona pace dei teorici della complicazione obbligatoria per risultare moderni, giochisti e non risultatisti.
Il risultato è un finale di stagione in cui la Roma corre per un posto in Europa, difficile la Champions League, ed entra a testa alta nella seconda fase dell’Europa League. L’Athletic Bilbao è avversario fortissimo, ostacolo difficile da superare negli ottavi anche perché motivato dall’idea di arrivare in fondo per giocarsi la finale nel proprio stadio. Però la Roma dei miracoli non parte battuta e anche questo è un tesoretto di credibilità guadagnato grazie al lavoro di un allenatore molto più moderno di quelli che hanno una carta d’identità più giovane rispetto alla sua.
